Difendere i poveri a costo della vita
Il mondo è cambiato da quel lontano 1980. Ma il vescovo del piccolo paese dell’America Centrale parla oggi più forte. «Un pastore che ha dato la vita per il suo popolo» e sale sugli altari è un dono straordinario per tutta la Chiesa e «lo è anche per tutti i cristiani». Lo dimostra «l’attenzione della Chiesa anglicana che ha posto la statua di Romero nella facciata della cattedrale di Westmister accanto a quella di Martin Luther King e Dietrich Bonhoeffer». Lo ha affermato mons. Vincenzo Paglia, postulatore della Causa di beatificazione dell’arcivescovo Romero in conferenza stampa.
Paglia sottolinea la gratitudine a Benedetto XVI che il 20 dicembre del 2012 – poco prima della sua rinuncia – sbloccò la pratica e nel suo primo viaggio in Brasile, nel 2007 dichiarò «per me Romero è beato». Ricorda anche Giovanni Paolo II che, dopo un primo tempo di incomprensioni «perché le notizie che arrivavano a Roma erano solo in una direzione», volle annoverare mons. Romero tra i Nuovi Martiri durante il Giubileo del 2000, inserendone il nome, assente nel testo scritto.
Come mai allora ci sono voluti 35 anni per portare a termine l’itinerario processuale? Il postulatore Paglia spiega il lungo lavoro richiesto e le molte difficoltà superate. Sia per le opposizioni rispetto al pensiero e all’azione pastorale di Oscar Romero, sia per la situazione conflittuale creatasi attorno alla figura: «Chi non era d’accordo e aveva pregiudizi robusti doveva essere aiutato a capire che aveva torto… Spostare un sassolino è semplice, spostare una roccia è più difficile, ma alla fine la verità ha avuto la sua vittoria». E, aggiunge, «ma non è senza significato che la beatificazione avvenga proprio mentre sulla cattedra di Pietro vi è, per la prima volta nella sua storia, un Papa latinoamericano che vuole una Chiesa povera per i poveri». Egli diventa «il primo della lunga schiera dei nuovi martiri contemporanei».
Il martirio di Romero è legato strettamente a quello di padre Rutilio Grande, gesuita che lasciato l’insegnamento universitario, era andato fra i contadini. La notte del 12 marzo 1977 Romero vegliò tutta la notte davanti al corpo dell’amico e ai due contadini trucidati insieme a lui. Era arcivescovo di San Salvador da pochi giorni, ma in quelle ore si commosse vedendo i molti contadini che affollavano la chiesetta: avevano perso il padre. Romero volle prendere il suo posto anche a costo della vita, in un Paese segnato dall’ingiustizia sociale, dalla violenza dell’oligarchia contro i contadini, da quella dei militari contro la Chiesa che difendeva i poveri, dalla violenza della guerriglia rivoluzionaria.
La persecuzione era palpabile. Dopo due anni l’arcivescovo Romero perde 30 preti tra quelli uccisi o espulsi o usciti dal Paese per sfuggire alla morte. Gli squadroni della morte uccidono decine di catechisti. La Chiesa era la principale imputata. Romero resiste. Capiva con sempre maggiore chiarezza che per essere il pastore di tutti doveva iniziare dai poveri, metterli al centro delle preoccupazioni della Chiesa e quindi di tutti i cristiani, compresi dei ricchi. Un amore preferenziale che nutriva nel vescovo Romero l’amore per il suo Paese e l’impegno per cercare le vie della sua pacificazione.
Romero «pregava molto». Il postulatore Paglia lo descrive «severo con se stesso, legato ad una spiritualità antica fatta di sacrifici, di cilicio, di penitenza, di privazioni». E seppure rigoroso, intransigente, tormentato, «nella preghiera trovava riposo, pace e forza”. Venti giorni prima di morire, in una omelia domenicale afferma: «il segreto della verità e della efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il papa. E quando vedo nel suo magistero pensieri e gesti simili a quelli di cui ha bisogno la nostra Chiesa, mi riempio di gioia».
Dal profilo che ne fa lo storico Della Rocca, collaboratore del postulatore e suo biografo, si desume che Oscar Romero sapeva che sarebbe stato ucciso. Da qui il lungo travaglio interiore. Cercava di dare senso alla morte che gli veniva annunciata ogni giorno in mille maniere, persino attraverso la televisione. Ma non ebbe dubbi: non avrebbe lasciato il Salvador. Diceva: «Un pastore non se ne va, deve restare sino alla fine con i suoi» e rifiutò anche un’offerta di ospitalità della Santa Sede. Tre settimane prima di morire disse al suo confessore: «Mi costa accettare una morte violenta… devo essere nella disposizione di dare la mia vita per Dio… Egli ha assistito i martiri e se necessario lo sentirò molto vicino nell’offrirgli l’ultimo respiro. Ma più che il momento di morire vale il dargli tutta la vita e vivere per lui».
Sono parole della sua ultima omelia: «Sappiamo che ogni sforzo per migliorare una società, soprattutto quando è piena d’ingiustizia e di peccato, è uno sforzo che Dio benedice, che Dio vuole, che Dio esige».
Con quella dell’arcivescovo di San Salvador, si studiano ora la vita di altri martiri dell’America Latina, tra i primi continenti a recepire le prospettive del Concilio Vaticano II, che ha portato un suo pastore a vescovo di Roma. «Egli però non arriva da solo», afferma mons. Paglia, «arriva circondato da questo numero di testimoni” che dicono «che questo continente ritrova ora un peso, una parola forte da dire al mondo intero».