Dietro le quinte del Familyfest
Il bello della diretta a volte è quel che non si vede. Ogni evento televisivo ha ovviamente un prima, un durante e un dopo; e tanto più quello è grande, tanto più ciò che accade dietro è di solito più complicato, variegato, e rivelatore del davanti che le telecamere riescono a mostrare al pubblico. Inutile aggiungere che tutto ciò è ancor più vero se l’evento è in diretta mondovisione, e se esso tende per sua natura ad uscire dai cliché dell’intrattenimento internazional- popolare. Chi ha seguito il Familyfest 2005 avrà, credo, apprezzato proprio questa diversità di linguaggio, di tono e di atteggiamento con cui è stata concepita la trasmissione. Una benedetta, spiazzante diversità che non poteva non contagiare anche tutti coloro che di questo evento sono stati protagonisti. Soprattutto i professionisti dello spettacolo (artisti in primis) coinvolti in un’impresa solo apparentemente simile alle altre affrontate in precedenza. E il fatto che tutti loro, alla fine, siano rimasti non solo soddisfatti delle loro performance ma anche grati a chi li aveva invitati era cosa tutt’altro che scontata, specie nel baluginante mondo dello show-business. Il Familyfest ha effettivamente fatto saltare parecchie regole. Prima tra tutte la gratuità della partecipazione, da tutti accettata senza far storie. Ma ancor più significativo è stato il modo in cui ciascuno ha portato il proprio contributo. Come tutti gli eventi di questo tipo, anche il Familyfest richiedeva un presupposto fondamentale e per molti versi antitetico alle regole imperanti: qui era l’artista a doversi adeguare all’evento, e non viceversa. Il che ha voluto dire, per esempio, che ad Alexia è stato chiesto di portare un brano non in promozione, e oltretutto cantato in inglese (scelta dolorosa poiché in antitesi con le sue attuali strategie discografiche). In altri casi è stato il clima che si respirava in piazza del Campidoglio a convincere gli artisti a modificare al volo le proprie scelte. Povia, per esempio. Era arrivato il pomeriggio precedente per le prove, con la faccia allegra e un po’ stranita di chi è passato in una notte dall’anonimato ai vertici delle classifiche. La sua Quando i bambini fanno ooh è perfetta per l’evento; è prevista un’esibizione in playback, semplice e senza rischi di sorta. Così il nostro tira fuori dalla tasca il cd: Ho dimenticato l’originale a casa, fortuna che ne ho trovato una copia taroccata da un marocchino, mi fa. È stranamente contento: Oh, chi l’avrebbe mai detto? Sta’ a vedere che sono proprio diventato uno di successo!, sbotta con un filo d’autoironia. Ma quando sale sul palco ha già cambiato idea: non gli va di farsi la solita comparsata, e decide di mettersi in gioco sul serio. Trova una chitarra e abbozza una scarna versione dal vivo, assai più coinvolgente: sarà uno dei momenti più gioiosi della scaletta, e ci vorrà una bella fatica per tirarlo via dalla morsa: tutti vogliono una foto con lui, l’autografo o semplicemente dirgli bravo. Quando se ne va è felice davvero, anche perché quell’abbraccio intergenerazionale gli ha fugato la preoccupazione più grande: quello di finire ingabbiato nel cliché di cantautore solo per bambini. Metamorfosi similari anche per Antonella Ruggiero e Maurizio Colonna, chiamati a suggellare con Echi d’infinito una delle testimonianze più toccanti, e per Enzo De Caro e Cristiana Capotondi, cui invece toccava il compito di dare voce a Igino Giordani e a Chiara Lubich, ovvero personaggi infinitamente lontani da quelli che solitamente intasano le fiction di cui sono protagonisti. Basta guardarli negli occhi, per capire che il Familyfest, e quelle parole, hanno lasciato un segno, e non solo nella loro memoria. Al di là dei lusinghieri risultati di ascolto e dell’ovvia perfettibilità dell’insieme, è difficile dire se, quanto, e soprattutto a chi, questo Familyfest sia servito. Ma per chi ne è stato parte, sarà difficile scordarlo, così come sarà quasi impossibile non riflettere sulle immense potenzialità di un media capace d’essere perverso o meraviglioso, a seconda della purezza d’intenti con cui lo si usa.