Dietro la svalutazione argentina

La recente megasvalutazione che il governo nega di aver pilotato è il sintomo di problemi macroeconomici sempre più seri. L’inflazione galoppa sopra il 25 per cento. Ma il problema principale è la fiducia che l’esecutivo non riesce a generare negli investitori
Cristina Fernandez de Kirchner

La recente e brusca svalutazione del pesos argentino fornisce un esempio del delicato stato di salute del governo di Cristina Fernández de Kirchner. Se il 2013 si è concluso tragicamente, con un saldo di una decina di vittime durante i saccheggi seguiti allo sciopero delle forze di polizia in varie provincie, cominciando da quella di Córdoba (l’Argentina è uno Stato federale e ogni provincia ha la sua polizia), il 2014 non è cominciato meglio. Centinaia di migliaia di cittadini, soprattutto della capitale, senza energia elettrica nel mezzo di una ondata di caldo eccezionale che ha fatto andare in tilt il sistema energetico, da tempo in crisi dopo un decennio improntato all’improvvisazione e alla mancanza di un programma per migliorare la fornitura, durante il quale il Paese da esportatore di petrolio si è trasformato in importatore netto.

In alcuni casi, interi quartieri di Buenos Aires sono rimasti senza elettricità per 15 e anche 20 giorni, anche dopo che le temperature erano rientrate nella normalità. Il che indica la scarsa capacità di previsione di problemi che, per effetto del cambiamento climatico, si verificano con sempre maggiore frequenza. Infatti al caldo torrido hanno fatto seguito piogge torrenziali che hanno provocato l’evacuazione di migliaia di persone per la tracimazione di vari corsi d’acqua.

Ma la sorpresa più devastante è venuta dall’economia, in una situazione delicata ormai da più di due anni, con la svalutazione del 25 per cento della moneta. Una misura negata nettamente e a più riprese dalla stessa Kirchner che, a suo tempo, aveva accusato settori finanziari e imprenditoriali di premere per una svalutazione in base ai propri interessi. Nel giro di poche ore il pesos nazionale è arrivato da 6,5 a quota 8 rispetto al dollaro statunitense, avvicinandosi al valore del mercato nero, dove viaggia intorno ai 12 pesos. Il governo ha inoltre riaperto la possibilità di acquistare dollari destinati al risparmio, ma solo per i redditi superiori ai 7 mila pesos mensili (cira 670 euro) e non oltre il 20 per cento delle entrate dichiarate. Dal 2012 era sempre più problematico acquistare in Argentina moneta straniera. La decisione ha provocato subbuglio e un ulteriore repentino aumento dei prezzi, consolidando l’inflazione annuale vicina al 30 per cento.

Va detto che il Paese è lontano da una crisi come quella del 2001, anche se la situazione comincia a far accendere un segnale di allerta più rosso che giallo. Il debito pubblico per fortuna vale meno del 50 per cento del Pil, le esportazioni hanno ancora delle performance discrete. Ma la presidente non riesce a trovare chi abbia la capacità di far fronte all’inflazione galoppante senza ricorrere alle tradizionali ricette di riduzione della spesa pubblica e, in conseguenza, degli ammortizzatori sociali. Elettricità, trasporti e gas sono altamente sussidiati e modificare tale schema avrebbe oggi ulteriori effetti deleteri. L’avanzo della bilancia commerciale, fino a ieri nell’ordine dei 10-12 miliardi di dollari, è stato eroso dalla sempre più cara bolletta energetica. E ciò, da quando l’Argentina è stata dichiarata un paria dal mercato finanziario internazionale senza dunque poter contare su prestiti internazionali, ha contribuito ad esaurire le scorte di dollari. Le riserve della Banca Centrale, che anni fa avevano raggiunto i 52 miliardi di dollari, oggi sono scese sotto 30 miliardi.

Ma il maggiore problema argentino è, prima ancora che macroeconomico, di fiducia. L’inflazione e il modo in cui il governo ha preteso di (non) affrontarla hanno eroso oltre agli stipendi anche la sua credibilità. Imprenditori ed economisti non riescono a credere in un esecutivo che oggi annuncia una cosa e domani fa esattamente il contrario. Non solo, ma che nega la stessa esistenza dell’inflazione (tutt'al più ci si riferisce al “riadeguamento dei prezzi”). Come stabilire un piano anti-inflazione se l’istituto di statistica si ostina ad indicarla al di sotto dell’11 per cento, mentre praticamente tutti la situano almeno al 25 per cento? Chiunque sa che spesso i prezzi dipendono dalle aspettative che un governo è capace di trasmettere; se non si genera fiducia, coloro che incidono sulla loro definizione tenderanno ad aumentarli nel dubbio che domani vada peggio. E siccome da un bel po' le cose non vanno meglio, il circolo vizioso si chiude.

D’altro canto, la gestione della Kirchner non ha mai puntato a generare un clima di concordia e tolleranza. Lo scontro con settori dell’economia e della produzione, con i gruppi editoriali che non condividono la sua visione delle cose e con chiunque manifesti dissenso è stato permanente, basta vedere il folto numero di funzionari che nel passato hanno fatto parte anche dell’équipe di governo e nel tempo ne sono fuoriusciti trasformandosi ipso facto in nemici acerrimi. Questa sfiducia reciproca, senza sottovalutare il peso degli interessi corporativi esistenti, sempre propensi ad assicurarsi vantaggi alle spalle del resto degli argentini, potrebbe spiegare l'inefficacia di tutti gli sforzi tesi a congelare il lievitare dei prezzi. L’eccessiva tolleranza mostrata nei casi, non pochi, di corruzione, ha fatto il resto. Insomma, cronaca di una crisi annunciata, che cocciutagine, improvvisazione e una certa dose di imperizia hanno trasformato da mare agitato in mare molto mosso e, forse, in una tormenta. 

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