Dietro la rivolta di Chinatown
Ci sono luoghi, all’interno delle nostre città, nei quali più facilmente possiamo cogliere le sfide che attraversano il nostro tempo: difficoltà di governo delle trasformazioni urbane, conflitti locali legati alla convivenza, ricadute di dinamiche economiche e politiche globali, così come nuove possibilità di dialogo e di crescita. Il quartiere cinese di Canonica Sarpi a Milano, balzato improvvisamente alla cronaca nazionale per il recente scontro tra commercianti cinesi e polizia locale, è uno di questi luoghi. Che cosa sta accadendo in questi giorni? Storia di un borgo divenuto città La presenza di un piccolo gruppo di cinesi a Milano ha una storia lunga: negli anni Trenta un primo nucleo d’immigrati arriva in via Canonica e nelle strade limitrofe in uno storico borgo fuori porta, oggi molto centrale, che ospitava immigrati provenienti dalla montagna lombarda. Sono giovani ragazzi provenienti dalla Francia, dove erano arrivati come operai negli anni della prima guerra mondiale. Sono quasi tutti originari di Qingtian e di Wenzhou, una zona sudorientale della piccola provincia dello Zhejiang. Le caratteristiche popolari del quartiere, le vecchie corti, le case a ballatoio, i piccoli laboratori, le vie strette costellate da negozi, favoriscono l’avvio di attività di tipo artigianale: la fabbricazione delle cravatte e la lavorazione delle pelli. Nei primi laboratori sono impiegate sarte del quartiere; mentre per la vendita al dettaglio i primi imprenditori cinesi si servono di connazionali. La popolazione cinese cresce lentamente nel corso dei decenni successivi in virtù di un continuo processo di richiami di parenti e di abitanti dello stesso villaggio, con momenti di crescita più consistenti in coincidenza di alcuni passaggi storici: l’apertura delle frontiere dopo Mao negli anni Ottanta, la crescita economica tumultuosa della Cina dagli anni Novanta in poi. I vincoli del matrimonio Non si potrebbe, tuttavia, comprendere la straordinaria crescita della comunità e della sua economia in città se non si considerassero alcuni dispositivi comunitari suoi tipici. Impresa e famiglia coincidono. Il costituirsi di una rete di parentela e i meccanismi di mutuo appoggio sono funzionali al rafforzarsi di una economia etnica incentrata sulla lavorazione artigianale delle pelli e sulla ristorazione. Questo intreccio tra strategie imprenditoriali e famiglia è da un lato fonte di sicurezza, dall’altro espone la famiglia a continue tensioni e conflitti. I familiari sono percepiti dall’imprenditore cinese come forza lavoro disposta ad accettare condizioni di lavoro faticose in nome dei vincoli di solidarietà che tengono insieme il clan familiare. Il legame comunitario viene rinsaldato attraverso momenti rituali; il matrimonio, ad esempio, rappresenta un investimento fondamentale, sancisce una forma di contratto non scritto in base al quale gli sposi, aiutati economicamente (attraverso doni in denaro) da amici e parenti, saranno sempre legati a quegli stessi amici e parenti da un debito: tale debito potrà essere restituito in occasione di un successivo matrimonio oppure in qualsiasi altra occasione. Chi ha fatto un dono ha diritto di chiedere un aiuto economico in qualsiasi momento di bisogno, in occasione dell’apertura di nuovo ristorante, in vista dell’apertura di un laboratorio artigianale, per l’acquisto di una casa. Questa relazione di reciprocità così vincolante è stata per vari decenni la forza di una comunità coesa e solidale ed ha creato opportunità lavorative e possibilità di migliorare la propria condizione economica. La metamorfosi del quartiere Dalla metà degli anni Novanta il quartiere è coinvolto da un cambiamento profondo. Se rimane contenuto il numero dei cinesi residenti, cresce invece il numero di coloro che vi si recano per lavorare, per utilizzare servizi particolari, per incontrare connazionali, ma crescono soprattutto a ritmi vertiginosi le attività economiche presenti in zona (oggi sono circa 500). Canonica Sarpi diviene un distretto di servizio che richiama utenti anche da fuori, che offre librerie, supermercati, negozi di noleggio di videocassette, agenzie immobiliari specializzate, bar e luoghi di incontro, centri culturali e servizi di telefonia internazionale. Sono almeno due i motivi che possiamo considerare per spiegare questo dato. In primo luogo, la riforma del commercio (D.L. 114/98) liberalizza la concessione delle licenze, non rende più necessaria alcuna autorizzazione comunale per i piccoli negozi di vicinato, e limita drasticamente la competenza amministrativa nella regolazione del sistema commerciale locale solo per medie e grandi strutture commerciali. Questo apre la strada affinché molti più numerosi esercizi cinesi vengano attivati in zona. In secondo luogo, cresce il numero di attività cinesi ma soprattutto cambia la natura di tali attività; la crescita della produzione e della esportazione di merci da parte della Cina che acquista sempre maggior peso nell’economia mondiale, soppianta la piccola produzione artigianale dei cinesi milanesi e favorisce la proliferazione di attività di import export, attività a basso investimento iniziale ma che libera dalle maglie strette del lavoro sottoposto. Accanto a questi fattori cresce e si rafforza una componente illegale e informale dell’economia locale cinese, con infiltrazioni di tipo mafioso e criminoso, che affianca e in qualche modo condiziona la parte più sana e vitale delle imprese, come evidenziato dalle cronache giudiziarie. Lo spazio della politica La presenza di negozi all’ingrosso difficilmente compatibile con la struttura angusta del quartiere, le inevitabili ricadute sul traffico a motivo dell’attività di carico e scarico delle merci, cominciano a suscitare disagio nei residenti italiani, già disorientati dal veder scomparire giorno dopo giorno i piccoli negozi di alimentari sostituiti da sempre nuovi negozi all’ingrosso. Il comune di Milano, chiamato ripetutamente ad intervenire, non ha davanti a sé molte strade. L’amministrazione locale, infatti, non è dotata di strumenti per agire sulle cause, sul mercato; per esempio, non può impedire la concessione di licenze ai grossisti in zona. A Milano il comune ha deciso, quindi, di agire sugli effetti: attraverso la proposta di istituire un’isola pedonale partendo da una forte riduzione, per poche ore al giorno, dell’accesso degli automezzi in alcune vie del quartiere, intende contenere il traffico e indirettamente colpire gli interessi dei commercianti. ! evidente che questa soluzione viene a creare una situazione di conflitto continuo e latente ed a lungo termine controproducente. Appare, allora, necessario, percorrere strade nuove. Governare questo tipo di processi locali significa, infatti, imparare a gestire l’impasse di situazioni conflittuali, sviluppando competenze diverse: capacità di dialogare e fare dialogare le parti, di stringere patti, di concordare con gli interessati orari, tempi e modi di utilizzo degli spazi comuni, di individuare soluzioni tecniche appropriate. Forse in questo caso, quella attitudine al rispetto di vincoli di reciprocità, quelle relazioni fiduciarie basate sul faccia a faccia tipiche dei rapporti di mercato che hanno caratterizzato la prima comunità cinese, possono divenire una risorsa civile da valorizzare. Come ha ricordato la Comunità di Sant’Egidio, da anni operante in zona, nel suo tempestivo comunicato stampa: La comunità cinese, a volte percepita come impermeabile, a causa soprattutto delle barriere linguistiche e dell’autosufficienza economica, in realtà presenta molti indicatori di integrazione: uno dei più alti tassi di scolarizzazione dei minori, studenti alle scuole superiori e alle università, numerose associazioni culturali. La risorsa della seconda generazione Il 12 aprile scorso nelle strade di Chinatown, in coincidenza con un conflitto doloroso e amaro con le forze dell’ordine impegnate a fare rispettare proprio quel regolamento del traffico, la città ha incontrato lo sguardo di ragazzi giovanissimi, molti nati in Italia, che qui hanno studiato, figli di commercianti e spesso impegnati essi stessi nelle attività di famiglia. Ragazzi che hanno dato voce ai padri e alle madri, che hanno preso la parola per loro per spiegare ragioni e aspettative. Sono ragazzi abituati a passare da una lingua ad un’altra, da una cultura all’altra. Le più recenti ricerche pedagogiche dicono che le seconde generazioni figlie di immigrati sviluppino vere e proprie competenze interculturali, capacità di negoziare, mediare, costruire significati e valori comuni, nell’esercizio quotidiano dell’arte della convivenza. Una risorsa che nessuna città può permettersi di sprecare: trovare soluzioni per la convivenza nel quartiere cinese si profila, allora, oggi per l’amministrazione milanese come un doppio appuntamento con la storia.