Dietro il colore degli Impressionisti
Se penso al Manet della Colazione nello studio, a Monaco, o alla Sultana oggi in mostra a Roma con decine di tele, di incisioni frementi e di acquerelli, mi salta subito all’occhio la tavolozza liquefatta (che fa tanto Velázquez), ma ancor più il senso di solitaria riflessione. E se i paesaggi densi di infinito di Corot appagano il desiderio di contemplazione, pure vi intravedo qualcosa che assomiglia ad un sospiro. Se poi passo a Gauguin e a van Gogh mi sembra di entrare in uno spicchio di mondo che di Manet e Corot, per quanto diverso, non è un contrario: sem- mai uno sviluppo. L’amore di Gauguin per la purezza, interiore prima che cromatica, che lo porterà alla ricerca della verginità nei suoi soggiorni a Tahiti è una risposta all’identico amore di Van Gogh per l’essenziale, pure se quest’ultimo grida da forme ossessive e timbri ruggenti. È una storia, quella dell’Impressionismo, ove protagonista è il colore, come sangue di una ricerca di novità a tutto campo. Il passato di colpo appare vecchio, brutto: freddo. Certo Manet o Corot rimangono dei classici nell’impianto e nei riferimenti, ma poi sono loro stessi a descrivere (e a sublimare) la realtà contemporanea che li circonda. Sono, specie Manet, dei rivoluzionari. Degli apripista per le schiere di artisti che verranno dopo o che già stanno in azione. In un’Europa industrializzata e metropolitana, la società borghese dell’apparenza e del successo è colma di solitudine. Osservando i ritratti dei nostri autori, siano di gruppo o individuali (L’amazzone di Manet, L’amante di Gauguin), si è colpiti dal realismo che è prima interiore che fisico: sono i ritratti dell’isolamento psicologico: esseri solitari, pur in mezzo alle folle, come accade nella Musica alle Tuileries manettiana. È gente di ogni giorno, nei mercati nei negozi nei caffè o nei teatri: una vita che pulsa, frenetica, fermata un attimo da una pennellata. Questa è l’arte che piace a Baudelaire, a Zola, perché simile alla loro visione: Un angolo della creazione vista attraverso un temperamento , afferma Zola di Manet. E Mallarmé, che ama nella scrittura la levità dell’avvio, la sottigliezza della forma e dell’espressione, è colpito dalla fluidità manettiana, forse senza cogliere il dolore, così ben nascosto, dei suoi personaggi. I quali, allora come oggi, nel turbinio della vita cittadina si trovano spiazzati, fuori parte. Di qui un senso di estraniamento che percorre i ritratti, un isolamento interiore che è poi quello che gli scrittori dell’epoca – francesi o russi – colgono con più o meno profondità. Sarà allora per sfuggire ad un mondo che sta perdendo l’anima, che il viaggio dell’Impressionismo si distende nella natura, ultima oasi di un pellegrinaggio di liberazione. I soggiorni in Bretagna o in Provenza o i viaggi esotici non sono forme di evasione di artisti che cercano nuove strade soltanto: appaiono sempre più viaggi alla ricerca del tempo perduto, per dirla con Proust. Indicando con tempo uno stato psicologico, una forte istanza emotiva e sentimentale, più che uno spazio cronologico. Così, se Gauguin recupera la luce del creato in Bretagna (Vegetazione tropicale, 1887), Van Gogh ne avverte lo spasimo vitale (Campo di papaveri, 1890), continuando quanto Corot anni prima aveva indagato, ma con uno sguardo incantato dal mistero, nei suoi Paesaggi, come pure un Millet. Soltanto che il sogno, l’incantesimo uomonatura è tramontato: ora l’uomo è un pulviscolo nell’immensità del cosmo, un particolare. È la natura ad essere amata e vissuta: i pittori en plein air, ovviamente, ma anche i musicisti nei poemi sinfonici descrittivi (da Dvorák a Debussy), i romanzieri esotici come Pierre Loti, i poeti come Rimbaud o D’Annunzio. L’uomo, in quest’universo panteistico, risulta un dettaglio. Pesa troppo il suo dolore – il male della società moderna alienante – per esser accolto nel grembo ancora immacolato della natura? Meglio, per gli artisti, immedesimarsi in ciò che resta del paradiso terrestre, affidarsi alle sensazioni più dirette, osservarne con amore le infinite manifestazioni di luce e colore, cioè di vita. Pure, un Gauguin recupera la figura umana, e con ciò tutta la sua anima depurata dall’Occidente; ove il dolore non è tolto, ma accettato come necessità vitale: sublimata da quell’aria acquosa che dà freschezza alle sue tele nell’eden ritrovato di Tahiti. Una pace forse raggiunta, cosa che non accade a Van Gogh. Per quanto lontano dalle metropoli, egli ne sente l’ansimare, gli arriva l’incomunicabilità fra gli uomini. Ciò lo consuma, ed egli si distrugge con le tele lancinanti come una vittima. Forse è questo aspetto che lo rende tanto amato dal nostro tempo, così come è questo rifugiarsi nella natura che rende la pittura impressionista tanto popolare. Infatti, noi ci sentiamo solidali, amici con tutta quest’arte. Come essa, noi cerchiamo il volto autentico della natura, rifuggiamo dalla sofferenza per la solitudine umana. Ricerchiamo in essa i segni di una presenza più grande? Certo l’Impressionismo, oltre il suo splendore, non parla solo di luce. E la natura, per quanto magnifica, resta misteriosa nel suo ciclo vitale. Questo mistero, che affascina ma è anche inconoscibile, attira. Forse perché in esso l’uomo non si sente più solo. MOSTRA PER MOSTRA Manet. 150 opere tra oli, disegni, incisioni e foto per la prima monografica italiana sul percorso umano e artistico dell’Autore. Roma, Vittoriano. Fino all’8/2 (catalogo Skira). Gauguin. L’avventura del colore nuovo.Van Gogh. 150 tra dipinti disegni acquerelli pastelli e incisioni dai maggiori musei mondiali. Brescia, Museo Santa Giulia. Fino al 19/3 (catalogo Linea d’Ombra). Millet. Sessanta capolavori dal Museum of Fine Arts di Boston. Brescia, Santa Giulia. Fino al 19/3. Corot. Natura, emozione, ricordo. Ferrara, Palazzo dei Diamanti. Fino all’8/1 (catalogo Ferrara Arte editore).