Dietro i fatti di Trieste

Le proteste contro i Green Pass proseguono e la mattina del 23 ottobre è avvenuto l'incontro tra il ministro Patuanelli e una delegazione del Coordinamento 15 ottobre. Ci offrono le loro riflessioni Rosy Russo, fondatrice e presidente di Parole Ostili, e Giovanni Grandi, professore associato di filosofia morale e docente di Etica e conflitti all’Università di Trieste
Trieste

Più passano i giorni e più si infittisce la nebbia. Guardando a Trieste, con la sua piazza più bella affacciata sul mare, e a quanto si è consumato e si sta consumando – con le manifestazioni #NoGreenPass e i presidi ad oltranza – proprio in quella piazza, e prima ancora ai varchi del porto, la sensazione è quella di una fitta, fittissima nebbia. E in questa nebbia è necessario fermarsi e, con pazienza, provare ad osservare. Non tanto per capire le motivazioni che pur ci sono, anche se diverse e molto confuse, ma per prendere consapevolezza del fatto che la massa di persone, a tratti indecifrabile, che ha scelto la città di Trieste come palcoscenico mediatico per le proprie istanze, è lo specchio della nostra società.

Ma facciamo un passo indietro. Le manifestazioni sono state inizialmente promosse dal Coordinamento dei lavoratori del Porto: determinati a far valere la propria opposizione rispetto all’obbligo del Green Pass entrato in vigore il 15 ottobre, forse con una piccola dose di ingenuità, si offrono come sostenitori di una causa più ampia, legata anche al mondo dei novax. Poi le cose iniziano a prendere una piega decisamente diversa: aggressioni verbali (in qualche caso sono volati anche spintoni) ai giornalisti, presidi e cortei non autorizzati, bivacchi in piazza (in barba a tutte le regole anti-Covid; poche le mascherine indossate), palchi allestiti senza permessi, interventi delle forze dell’ordine con idranti e lacrimogeni e via discorrendo.

I portuali si trovano invischiati in una cosa più grande di loro e ad un certo punto si sfilano. Nasce un nuovo coordinamento (“Coordinamento 15 ottobre”) e, intanto, si scopre che tra i manifestanti ci sono molte persone vaccinate, contrarie quindi solo all’obbligo del Green Pass e non al vaccino, ci sono persone vicine alla destra e alla sinistra estrema, ci sono famiglie, medici, triestini e non e, dulcis in fundo, spuntano icone ed effigi sacre, si sventolano rosari e si organizzano momenti di preghiera, ma anche meditazioni e sessioni di percussioni.

Parallelamente, un grande movimento sui social: su Facebook, Twitter e Instagram (ma anche sui canali Telegram), il mondo virtuale precede e annuncia ciò che accadrà nelle strade della città, ma allo stesso tempo riprende e rilancia in tempo reale ciò che accade ai varchi del porto e in piazza e alimenta un clima già piuttosto rovente.

La mattina di sabato 23 ottobre ecco l’auspicato incontro a Trieste tra una delegazione del Coordinamento e il ministro Patuanelli, che si è impegnato a riferire tutte le istanze al prossimo Consiglio dei ministri, mentre le proteste, è stato annunciato, proseguiranno.

«Quanto accaduto prima sui social e poi in piazza a Trieste sono due cose molto simili – ci spiega Rosy Russo, fondatrice e presidente di Parole Ostili – e sono entrambe frutto della paura e della cattiva comunicazione. Dopo due anni di pandemia ognuno di noi porta dentro le proprie inquietudini e c’è chi riesce a tenerle sotto controllo e chi no… poi c’è stato un grave problema di comunicazione su scala mondiale. La pandemia è stata raccontata male, forse perché all’inizio si sapeva poco, e c’è stata molta confusione, tantissime fake news; la comunicazione istituzionale ha fatto gravi errori, anche rispetto alla campagna vaccinale. Ci si è un po’ scordati di mettere al centro della comunicazione le persone. Il caos che ne è conseguito si è trasformato in ansia e questa, lo sappiamo, genera violenza verbale, la stessa che abbiamo visto sui social e poi in piazza. C’è in atto un “tutti contro tutti” che l’introduzione dell’obbligo di Green Pass ha ulteriormente acuito».

E poi c’è una questione legata al linguaggio d’odio: «Abbiamo visto che la parte violenta di alcune manifestazioni ha matrici più complesse – prosegue Russo – e se per ora Trieste si è dimostrata tutto sommato una piazza pacifica, l’odio e l’abitudine ad utilizzare un linguaggio violento, ormai sdoganata a tutti i livelli, possono avere effetti molto gravi, come ha dimostrato il caso di Capitol Hill. Oggi i social sono una piattaforma di grande libertà di parola, ma ciò non significa deresponsabilizzazione. Diciamo sempre che l’importanza delle parole dipende anche da chi le dice e la gestione della propria community è una prima parte di responsabilità verso la comunità e verso la società in generale».

«Il diritto di parola è sacrosanto – incalza Giovanni Grandi, professore associato di filosofia morale e docente di Etica e conflitti all’Università di Trieste –, questo diritto di esprimerci però non implica che tutto ciò che pensiamo o diciamo sia vero, fondato o semplicemente saggio. Quello che mi colpisce non è tanto la rivendicazione della libertà di dire, ma la sicumera nel dire, come se non ci fossero margini di dubbio nelle cose complesse: è il riflesso di una inospitalità per l’altro e per il suo apporto, e in questo senso è senz’altro un fatto etico su cui meditare. La pandemia è un male globale che ha lasciato dietro di sé una mole impressionante di macerie, per lo più invisibili».

È come se tutto si stesse muovendo troppo velocemente: «Dopo la pandemia stiamo recuperando la “normalità” esteriore in tempi molto più rapidi rispetto ai tempi di recupero e di rielaborazione interiori, con un doppio problema: tendiamo a dimenticarci di chi è stato più segnato e tendiamo a bypassare l’elaborazione del senso dell’accaduto e dell’insegnamento che potrebbe offrirci. Nella vita che ritorna prepotentemente ad essere attiva mi pare si stia accrescendo il deficit di vita contemplativa». Infine, la questione della libertà, che «è anzitutto connessa alle scelte. C’è libertà quando ci sono delle opzioni e, d’altra parte, avere delle opzioni non significa che queste siano prive di conseguenze, di rischi e di oneri, anche se per altri versi costituiscono dei guadagni o dei vantaggi. La vicenda Green Pass è istruttiva in questo senso. La libertà si esprime dentro una cornice di corresponsabilità e di impegno e non è cioè un assoluto, non coincide mai con il “fare quel che si vuole”. È invece un muoversi tra diverse opzioni ma pur sempre – almeno nella civitas – dentro una cornice di obblighi di corresponsabilità che ci assumiamo per la vita buona comune».

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