Diede forma e colore allInvisibile
Gli affreschi del Beato Angelico, primo artista santo, nel convento fiorentino di San Marco
Narra il Borselli a proposito di fra Giovanni da Fiesole, popolarmente conosciuto come il “Beato Angelico” «per la perfetta integrità di vita e per la bellezza quasi divina delle immagini dipinte», che papa Niccolò V aveva in massima stima la sua virtù e santità di vita e di tanto in tanto andava ad osservarlo mentre affrescava una cappella nel suo palazzo. Un giorno gli disse: «Fra Giovanni, oggi voglio che mangiate carne per il lavoro fatto». E l’altro: «Non ho il permesso del mio priore». «Vi dispenso io», replicò allora il pontefice. Questo aneddoto s’aggiunge ad altre pennellate sulla statura spirituale del domenicano dei Mugello, ricavabili dalla scarna biografia scritta dal Vasari. Queste ad esempio: «Non fu mai veduto in collera tra i frati, il che grandissima cosa e quasi impossibile mi pare a credere (…). Aveva per costume non ritoccare né raccorciare mai alcuna sua dipintura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta, per credere, secondo ch’egli diceva, che così fusse la volontà di Dio».
Nel 1984, a distanza di oltre 500 anni dalla sua morte, avvenuta il 18 febbraio 1455, Giovanni Paolo II ha sancito in maniera ufficiale e a livello liturgico – caso finora unico per un sommo artista – quel titolo di “beato” con cui, accanto ai meriti del pittore, i posteri intesero rendere omaggio a quelli del religioso esemplare. Prima di essere artista, infatti, egli fu un uomo di Dio, appartenente a un Ordine allora splendidamente vivo, «né mai volle lavorare altre cose che per i santi». Questo limite, che egli stesso si pose, è indice di una personalità artistica ben definita e della libertà con cui si muoveva nell’arte rinascimentale. Egli ne assunse istintivamente solo quegli aspetti che, modernizzando le espressioni del suo stile, non avrebbero travisato il carattere della sua arte, che, oltre a proporsi un fine essenzialmente religioso, riflette una base dottrinaria: dalle creature al Creatore, dal bello naturale al bello morale. E ciò spiega i punti di contatto con la tradizione artistica e culturale precedente, che egli riceveva però rinfrescata e rielaborata dalla corrente di riforma domenicana: riscoperta della luce come rivelatrice della presenza divina in tutte le cose; concezione sacra della storia, dove tutto è preordinato ad un fine celeste. E spiega anche la sua cosiddetta “asistematicità”, che dentro il sistema rinascimentale lo pone come figura originale.
Tante cose si potrebbero dire del suo naturalismo, del suo acuto sguardo sulla realtà quale si coglie soprattutto in quegli straordinari manifesti a colori dispiegati per il popolo che sono le sue predelle e le sue pale d’altare; ma ciò che più incanta nell’Angelico è il timbro di intensa spiritualità che egli dà a tutte le sue opere e che corrisponde, del resto, a un momento particolarmente felice della Chiesa, ringiovanita da nuove energie spirituali spesso grazie a grandi anime: basti pensare a Caterina da Siena e al beato Raimondo. I personaggi delle sue opere sono tutti compagni della sua vita ascetica, hanno il suo dominio sull’uomo, il suo sguardo da “puro di cuore”, la sua superiore dolcezza. Creature libere, perfettamente realizzate nel loro destino cristiano, ciascuna di loro ha compiuto nell’intimo la fatica del pellegrinaggio terreno ed è ormai signora di sé: è 1’“anima madonna”, secondo il pensiero del beato Dominici fedelmente tradotto da fra Giovanni. Ecco perché in esse non si nota un gesto superfluo, ma una compostezza del corpo che è riflesso di quella interiore.
Il Vasari afferma che «non lasciò mai ufficio ecclesiastico per dipingere» e che «a chiunque ricercava opere da lui, diceva che ne facesse esser contento il priore, e che poi non mancherebbe». Per fra Giovanni dunque l’arte è un talento da trafficare, non per esibire se stesso, ma per servire gli altri. C’è in lui, accanto all’austerità del contemplativo, un caldo senso di comunicativa del suo mondo interiore. Così, di volta in volta, trova un linguaggio adatto alla gente del popolo e agli intellettuali, ai suoi confratelli dell’Ordine e alle corti dei Medici e di un papa umanista, quasi che la pittura sia divenuta per lui la sola maniera di predicare, di rendere nella pratica la sollecitudine tutta domenicana di trasmettere agli altri ciò che si è contemplato.
S’avverte nella sua opera anche l’impronta del legame che ha unito l’artista al beato Dominici e a sant’Antonino, i grandi continuatori della riforma domenicana. «Vita spirituale è vivere in sincera verità», aveva scritto il primo nella sua prosa ardente e piena di luce:
l’aria pulita, sincera, che è nei dipinti dell’Angelico, era ancor prima nella sua vita, nei suoi sensi e sentimenti fattisi spirituali. E pure il senso, che è in lui, di una natura ricondotta alla primitiva innocenza paradisiaca, lo si ritrova nel Dominici. L’altro, Antonino, il futuro arcivescovo di Firenze, santo anch’egli e innamorato della bellezza, afferma che «il corpo di Cristo fu il più bello corpo umano che mai fosse e che mai abbi ad essere». L’Angelico non poté non ricordarsene nelle sue Crocifissioni e Deposizioni. Quei santi e beati domenicani, dunque, non respingevano né la vita, nè le arti, né la cultura, e nel convento fiorentino di San Marco, infatti, si raccolse una delle prime e più belle biblioteche umanistiche:
le elevavano, in sé e intorno a sé, a sentire e a dire quella scintilla di divino che fa grande il destino dell’uomo.
l’aria pulita, sincera, che è nei dipinti dell’Angelico, era ancor prima nella sua vita, nei suoi sensi e sentimenti fattisi spirituali. E pure il senso, che è in lui, di una natura ricondotta alla primitiva innocenza paradisiaca, lo si ritrova nel Dominici. L’altro, Antonino, il futuro arcivescovo di Firenze, santo anch’egli e innamorato della bellezza, afferma che «il corpo di Cristo fu il più bello corpo umano che mai fosse e che mai abbi ad essere». L’Angelico non poté non ricordarsene nelle sue Crocifissioni e Deposizioni. Quei santi e beati domenicani, dunque, non respingevano né la vita, nè le arti, né la cultura, e nel convento fiorentino di San Marco, infatti, si raccolse una delle prime e più belle biblioteche umanistiche:
le elevavano, in sé e intorno a sé, a sentire e a dire quella scintilla di divino che fa grande il destino dell’uomo.
Verso la fine del 1438 l’Angelico viene chiamato ad affrescare il nuovo convento di San Marco dove, sollevato, come sembra, dal vincolo di commissioni esterne, può dedicarsi in tutta libertà, senza cioè doversi adeguare al gusto altrui o alla moda del tempo, ad un lavoro che è riservato ai soli confratelli del suo Ordine. Nell’apparente rinuncia allo splendore caro al Rinascimento a favore di un linguaggio più semplice, improntato a rinunzia e a umiltà, l’Angelico ci appare pienamente se stesso. È un’esperienza, quella che egli affida alle immagini, ai colori, trasmettendone l’emozione anche al visitatore di oggi. Così, nell’Annunciazione, nella Passione e Morte di Cristo, nell’incontro di Maddalena col Risorto e nel gaudio eterno della patria celeste. Negli affreschi delle celle e dei corridoi egli non rievoca soltanto fatti accaduti duemila anni fa né anticipa soltanto qualcosa a venire. Giacché tutto è già contenuto nella vita quotidiana di ogni cristiano da quando lo Spirito di Cristo è all’opera nel mondo, ogni momento può essere annuncio, scoperta dell’amore di Dio; morte di sé, del proprio io, a favore dei fratelli, completamento nelle proprie membra di ciò che manca ai patimenti di Cristo; vittoria, superamento della prova, rinascita gioiosa (come per la Maddalena rinnovata dall’apparizione nell’orto); oppure comunione di anime ardenti nella carità, primizia sulla terra della beatitudine in paradiso, come si coglie nella adorante fissità dei santi nell’Incoronazione della Vergine.
Nella meditazione cade la necessità delle notazioni paesaggistiche, dei particolari. Ciò che era necessario al popolo per immedesimarsi con le vicende della Scrittura non ha più ragion d’essere per il monaco asceta che ha familiarità con essa e già si esercita ogni giorno per far sue quelle realtà. La composizione delle scene si fa perciò essenziale, acquistando in efficacia:
il puro necessario, quanto basta per richiamare un fatto, una frase, una verità, che avvii poi e continui il dialogo con l’eterno.
il puro necessario, quanto basta per richiamare un fatto, una frase, una verità, che avvii poi e continui il dialogo con l’eterno.
Riflesso di una raggiunta libertà spirituale, l’aria che aleggia in questi affreschi sembra provenire anch’essa da una regione dove i limiti di spazio e di tempo sono ormai superati; e forse accentua questa impressione il fatto che ogni scena sembra fissata nel presente, nel momento in cui trova il suo significato massimo, e lasciata poi lì all’adorazione: un presente ovviamente non determinato, ma che con la mediazione dell’immagine attinge in maniera ineffabile quella realtà paradisiaca che in fondo, nell’invenzione pittorica sempre nuova, è stato l’unico tema che l’Angelico ha dipinto e proposto all’uomo di sempre.