Dick Fosbury, l’eredità oltre la morte

Si è spento lo scorso 12 marzo Richard Douglas Fosbury, detto Dick. L’altista statunitense resterà indimenticabile per tutta l’Atletica, avendo rivoluzionato la tecnica del salto in alto
Dick Fosbury
Il vincitore della medaglia d'oro Dick Fosbury alza il braccio sul podio dei vincitori dello stadio olimpico, 20 ottobre 1968, a Città del Messico. A sinistra c'è la medaglia d'argento Ed Caruthers degli Stati Uniti e a destra c'è la medaglia di bronzo Valentin Gavrilov della Russia. (AP Photo/File)

È passata poco più di una settimana dalla morte a Portland, all’età 76 anni, di Dick Fosbury: il campione statunitense vincitore dell’oro alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 che con il suo Fosbury flop è passato alla storia e ha rivoluzionato il modo di saltare nel salto in alto. A darne notizia era stato l’ex manager Ray Schulte, con un post su Instagram: «È con il cuore pesante che devo annunciare che l’amico e cliente di lunga data Dick Fosbury è morto pacificamente nel sonno domenica mattina presto dopo una breve recidiva di linfoma – scrive Schulte –. Dick mancherà moltissimo agli amici e ai fan di tutto il mondo. Una vera leggenda e amico di tutti».

Con questo messaggio l’agente e amico del campione chiariva anche la causa della morte, legata alla ricomparsa di un linfoma contro cui l’atleta classe ’47 si è dovuto arrendere.

 

I debutti e il salto non capito

Nato a Portland, Fosbury era figlio di immigrati inglesi e studente di Medford, in Oregon. Da ragazzo non sembrava per niente portato per lo sport: dopo aver abbandonato il baseball e il basket aveva intrapreso la strada dell’atletica leggera e, in particolare, quella del salto in alto, con scarsissimi risultati; tanto da definirsi, nella sua autobiografia, come «uno dei peggiori saltatori in alto dello Stato». In effetti, durante il liceo, Fosbury aveva avuto molte difficoltà a competere usando le tradizionali tecniche di salto in alto del periodo: in particolare, il metodo straddle, ovvero un movimento complesso in cui un atleta superava la sbarra del salto in alto rivolta verso il basso e sollevava le gambe individualmente sopra la barra. Il giovane Fosbury trovava talmente complicato coordinare tutti i movimenti coinvolti nel metodo straddle che al suo secondo anno di liceo non era riuscito a saltare nemmeno 1,52 m: di conseguenza, non si era qualificato a molti degli incontri delle scuole superiori. «Sapevo che dovevo cambiare la posizione del mio corpo – avrebbe in seguito dichiarato Fosbury – e questo è ciò che ha iniziato prima la rivoluzione e, nei due anni successivi, l’evoluzione».

A questo punto il giovane Fosbury aveva deciso di cambiare metodo di saltare; e gradualmente era arrivato a quello che sarebbe poi diventato il Fosbury flop, il salto dorsale – ormai universalmente impiegato – nel quale l’atleta scavalca l’asticella rovesciando il corpo all’indietro e cadendo sulla schiena. Salto che però non solo non era capito, ma neanche particolarmente apprezzato: tanto da far dire ai suoi allenatori «il ragazzo si romperà il collo», quando avevano visto questo liceale di 16 anni cercare di superare l’asticella, a modo suo, dorsalmente.

Dick Fosbury
Dick Fosbury dell’Oregon State tenta un salto in alto di sette piedi e due pollici nella pista del New York Athletic Club, al Madison Square Garden di New York, 17 febbraio 1968. (AP Photo/File)

La consacrazione

Per fortuna, però, il giovane Dick non si era lasciato convincere da quel «Il ragazzo si romperà il collo»; e aveva perfezionato la sua tecnica sempre di più fino ad arrivare al 1968, quello che diventerà l’anno della sua consacrazione. «Quando il bilanciere ha raggiunto un’altezza che non avevo mai raggiunto prima, ho capito che dovevo fare qualcosa di diverso. Ho iniziato a cambiare posizione del mio corpo: man mano che il bilanciere si alzava, passavo da una posizione seduta a un’altra più sdraiata sulla schiena. Ho migliorato il mio record e sono arrivato quarto nella competizione. È stato il clic».

Fosbury aveva deciso di fidarsi del suo istinto e questo lo aveva portato alla vittoria della Pac-8 Conference – la conferenza atletica collegiale degli Stati Uniti – e a quella del campionato Ncaa – campionato universitario di atletica leggera all’aperto – a Berkeley, in California, con un salto di 2,197 m. Ma questo non era ancora nulla per il giovane atleta che sarebbe arrivato al culmine della sua carriera solo qualche mese dopo, alle Olimpiadi di Città del Messico 1968, quando riusciva a saltare la misura di 2,24 m stabilendo il nuovo record olimpico – oltre a vincere l’oro. Per questo salto che lo aveva consegnato alla storia aveva indossato due scarpe di colore diverso perché, come avrebbe poi detto lui stesso, «la destra di quel colore mi dava una spinta verso l’alto superiore rispetto a un altro tipo di calzatura».

 

Il ritiro e l’eredità atletica

Fosbury era così entrato nella storia, anche se non era poi riuscito a qualificarsi per i Giochi di Monaco del 1972 e aveva così posto fine alla sua carriera agonistica. La cosa straordinaria e del tutto inaspettata era stata, però, la presenza del Fosbury flop ai successivi Giochi olimpici nonostante l’assenza dell’atleta che lo aveva inventato. A Monaco 1972 erano stati, infatti, 28 su 40 gli atleti che avevano impiegato la sua tecnica e sempre più numerosi erano stati, e sono anche adesso, gli atleti che la utilizzano. «Pensavo che, dopo aver vinto l’oro, uno o due saltatori avrebbero iniziato a usarlo – aveva dichiarato Fosbury nel 2012 – ma non ho mai pensato che sarebbe diventata la tecnica universale». Una bella canzone recita «disegna la storia solo chi è capace»: Fosbury ne è stato capace. Era entrato nella storia nel 1968 e pensava di esserne uscito, in punta di piedi, così come ci era entrato, solo l’anno dopo. Ma, in realtà, chi disegna la storia non può di certo uscirne: e con il suo ultimo salto dello scorso lunedì Dick Fosbury ha, in realtà, solo disegnato la sua ultima pagina di storia tra noi.

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