Dichiarazioni di pace
Un secolo fa – il 28 giugno 1914 – l’Arciduca d’Austria viene ucciso in un attentato, inaugurando la serie di eventi che avrebbe portato il mondo alla Grande Guerra. Il continente europeo è una polveriera in cerca di una miccia, e difatti appena dopo un mese dalla morte di Francesco Ferdinando, fioccano le dichiarazioni di guerra. In Italia, il dibattito è serrato fra coloro che ritengono che bisogna approfittare della situazione per entrare in guerra e liberare Trento e Trieste, e gli altri convinti che, in cambio di un atteggiamento neutrale, l’Austria avrebbe contraccambiato rilasciando le terre irredente. Dunque, l’opinione pubblica è quasi tutta spaccata fra interventisti e neutralisti. Quasi, perché un giovane neodiplomato di Tivoli, appena uscito vincitore da un concorso ministeriale, ha tutt’altra opinione. Si chiama Igino Giordani e nel 1914 ha 20 anni. Non è interventista, né neutralista, perché la pace non è un tema strategico. È convinzione di Giordani che la pace fra gli uomini è radicata in Dio che ci ha fatti tutti a sua immagine e somiglianza. Ciò significa che sparare a un altro uomo vuol dire uccidere l’immagine di Dio, commettere deicidio. Impossibile, secondo lui. Il suo pacifismo non è negoziabile, e in quel clima infuocato, dove bastava poco per essere accusati di tradimento, non retrocede di un millimetro nella convinzione pacifista. Durante i dibattiti pre-bellici, si tuffa nei comizi attizzati dalla retorica di D’Annunzio e difende le ragioni della pace. Ricorda nelle sue Memorie che qualcuno gli suggerirà di andarci cauto, perché ci voleva poco – al tempo – a venire malmenati per non appartenere alle correnti dei guerrafondai. Viene chiamato alle armi e fatto studiare alla scuola militare per diventare sottotenente, e scrive sul manuale di strategia militare: «Qui si studia la scienza dell’imbecillità».
Un intellettuale come Giordani, amante del latino e del greco, studioso delle belle lettere, non poteva concepire che si potesse prestare la mente allo studio del modo migliore per dare la morte. Mentre padre Semeria benedice le truppe che s’apprestano al fronte militare, così come padre Gemelli e don Sturzo, Giordani rimane pacifista anche di fronte al nemico: «Se cinque o sei colpi sparai, in aria, lo feci per necessità: mai volli indirizzare la canna del fucile verso le trincee avversarie, per tema di uccidere un figlio di Dio». Era tutt’altro che un codardo: quale ufficiale più giovane della compagnia, fu incaricato di far brillare un esplosivo sotto un reticolato nemico. È un’azione disperata: il sottotenente di fanteria Igino Giordani ordina ai subordinati (una ventina di soldati) che l’avrebbero dovuto accompagnare di rimare indietro, per non sacrificare anche la loro vita. Strisciando assieme ad altri due sul lembo di terra del Monte Grappa che conduce al filo spinato nemico, viene raggiunto dalle pallottole del cecchino austriaco: «sentii un colpo (assai leggero, quasi un buffetto) sulla gamba destra, e subito dopo la vidi girare di forza propria e risalire a casaccio, da sé, come se non mi appartenesse. Alzai la mano destra per intervenire e scorsi le dita penzolanti che grondavano sangue. Ne argomentai che ero ferito». Lo credono morto, lo pongono fra i cadaveri che dovranno essere seppelliti. Un medico che passa di là, però, si accorge che è ancora in vita. Si organizza uno straziante viaggio in treno verso l’ospedale militare di Milano.
Giordani ricorda la febbre alta, il gocciolare del sangue suo e di tutti i commilitoni feriti sul pavimento del vagone infuocato perché fatto di lamiera ed esposto al sole. Poi, i suoi ricordi diventano intermittenti, scanditi dalle 10 operazioni chirurgiche subite per salvargli la pelle. Durante questi periodi d’intermittenza, ha tempo di colloquiare col crocifisso appeso davanti a sé: «Perché, mio Dio? – gemevo. E volevo dire: – gli uomini han crocefisso Te, Dio; hanno crocifisso noi, mortali: perché sono così efferati, questi uomini, così canaglie, così dannati? Chi li salverà?». Igino ancora non lo sa, non può saperlo: Dio gli risponderà conducendolo a Chiara Lubich, trasformandolo in Foco, innalzandolo agli onori degli altari, proponendolo come modello di vita cristiana vissuta con coerenza perfino nelle trincee della Grande Guerra.