Dibattito su caporalato e lavoro nero

L’iniziativa del governo rischia di non essere efficace secondo il segretario dei lavoratori agricoli della Uil che ha avviato rapporti stretti con il mondo del commercio equo in Europa. Quanto conta il sistema premiale per le aziende produttrici
lavoro nero

Lo sfruttamento sistematico del lavoro dei braccianti agricoli è una piaga che non può essere accettata e tollerata accontentandosi dei proclami e dei comunicati ufficiali senza andare alla radice del fenomeno che sembra inestirpabile in alcuni territori italiani. Per questo motivo documentiamo una indagine su più filoni. Abbiamo chiesto i contributi di Oliviero Forti di Caritas italiana e dell’avvocato penalista Orazio Moscatello, collaboratore di Città Nuova.  Continuiamo ora il confronto con Stefano Mantegazza, segretario generale del sindacato Uil per il settore agricolo che ha avviato, assieme alle altre sigle confederali, un’interessante collaborazione con le reti del commercio equo europee che hanno chiesto al governo italiano di intervenire per eliminare la piaga del lavoro servile nelle campagne del nostro Paese.  

Ciò che avete proposto come sindacato, non è, in fondo, quanto previsto nel decreto governativo “Campolibero”?

«Solo in minima parte! Campolibero ha istituito la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, alla quale possono però iscriversi solo le aziende che non hanno precedenti penali in materia (lavoro e legislazione sociale, imposte sui redditi e sul valore aggiunto) e siano in regola con il versamento di contributi previdenziali e premi assicurativi; ha inoltre istituito la “cabina di regia” della Rete che deve validare le iscrizioni, decidere eventuali cancellazioni e formulare proposte.
Di fatto, mancano gli strumenti per favorire l’incontro tra domanda e offerta, rischiando di trasformare la Rete in un inutile appesantimento burocratico non utilizzabile per fare emergere il lavoro nero. Per ovviare a tali lacune, in sede parlamentare e grazie all’azione di Fai-Flai-Uila, sono stati proposti degli emendamenti che mirano a recuperare la nostra proposta originaria, accrescendo le competenze della cabina di regia ed estendendo la partecipazione alle rete ad altre entità, tra le quali anche i soggetti autorizzati, interessati ad esercitare il trasporto di lavoratori agricoli. Questi emendamenti sono contenuti nel “Collegato agricoltura”, approvato dal Senato il 13 maggio scorso e in attesa di essere esaminato dalla Camera».

Nei giorni scorsi lei ha anche proposto di ridurre di un euro a giornata i contributi previdenziali per le aziende che si iscrivono alla Rete. Non ritiene che tale sgravio si presti a un facile travisamento, visto il fenomeno del lavoro sottopagato ma formalmente regolare?

«Non credo. Per le aziende iscriversi alla Rete non è una semplice formalità; è una decisione che presuppone una scelta di campo e un impegno serio nel senso della legalità. Riconoscere un incentivo economico, sotto forma di sgravio fiscale, mi sembra una misura giusta per premiare le aziende virtuose. Ma oltre l’introduzione di uno sgravio fiscale, nei giorni scorsi abbiamo proposto la definizione di un marchio etico del lavoro di qualità per le aziende iscritte alla Rete e di  estendere alle aziende le sanzioni previste per lo sfruttamento illecito della manodopera (art.603 bis, Codice penale) con la cancellazione dalla Rete delle aziende agricole che non applicano il Contratto collettivo nazionale, le leggi sulla sicurezza del lavoro e che utilizzano la intermediazione illecita di manodopera, prevedendo, inoltre, per tali aziende la revoca delle agevolazioni contributive e dei contributi  europei (Pac)».

Ma in tutte queste misure non resta fuori il sistema degli acquisti della Grande distribuzione organizzata che è uno dei gangli da colpire?

«Il problema dei rapporti con la Gdo riguarda il mondo della produzione nel suo complesso. Certamente occorre vigilare affinché vi sia trasparenza ed equità nei diversi passaggi dei prodotti ma il problema più importante da risolvere è l’aggregazione dell’offerta, la capacità cioè dei produttori di mettersi insieme per accrescere il potere contrattuale nei confronti dei grossisti e per valorizzare le proprie produzioni, anche attraverso nuovi canali commerciali».

Non si può considerare anche il piccolo produttore come un lavoratore schiacciato da una concorrenza invincibile e perciò obbligato a ricorrere al lavoro nero per non fallire?

«No mi scusi. È come dire che siccome c’è traffico e sono in ritardo, posso sentirmi legittimato a passare con il rosso al semaforo? Il rispetto della legge, e soprattutto dei diritti del lavoro e delle persone, non può essere considerato un optional. Un’azienda non fallisce perché paga regolarmente il lavoro che utilizza».

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons