Il dialogo secondo Francesco
Dopo anni in cui era quasi impronunciabile, la parola dialogo stia tornando a risuonare con una certa frequenza nel dibattito pubblico e nella pubblicistica. Archiviato il ricorrente mantra sui pericoli del relativismo, è stato papa Francesco ad aver fornito un contributo essenziale a tale svolta, con una serie di gesti e di discorsi che fanno presagire l’inizio di una nuova stagione. Un passaggio notevole è stato il suo discorso in occasione dei cinquant’anni del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici (PISAI), prestigiosa struttura accademica che nel corso dei decenni ha formato decine di preti, laici e missionari preparati al dialogo con l’islam. […]
Nel frangente, Bergoglio è ricorso a un’immagine simbolicamente eloquente: «Al principio del dialogo c’è l’incontro e ci si avvicina all’altro in punta di piedi senza alzare la polvere che annebbia la vista». Sì, mi pare che la scelta iniziale di Francesco di risiedere a Santa Marta, rifiutando l’appartamento nobile papale, e di fare una vita che è impossibile non definire almeno alquanto sobria, sia già un atto concreto di dialogo: mentre un motivo di speranza ma anche una svolta (a mio parere irreversibile) risiede nella scelta del suo stile di pontificato. Cosa che, per la verità, va ben oltre i pur rilevanti cambiamenti nella quotidianità che i media hanno sottolineato.
Il riferimento è alla visione del cristianesimo suggerita dal teologo francese Christoph Theobald, quando rilegge il cristianesimo come stile. Perché ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri è un tutt’uno con il suo essere, in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre: dal suo stile emerge la provocazione di un cristianesimo che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, alla fine del regime di cristianità – possono essere viste come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto.
Quando prevale la forma, si ha un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, istituzione gerarchica, struttura dove, però, è assente la sostanza di quell’amore che porta Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, verità fatta di formule cui credere, priva di un legame vitale con l’esistenza delle persone. Una Chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, ma spazio in cui le persone trovano la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza.
Ogni persona – quali che siano la sua religione, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che aspetta di rivelarsi come per gli apostoli nella Pentecoste, cioè di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione di Dio propria di ogni religione, cultura e pensiero, invece di assumere atteggiamenti di svalutazione e condanna.
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Siamo chiamati a camminare insieme, papa Francesco lo ripete in continuazione. Ed è un dato che tale prospettiva sta producendo una serie cospicua di esperienze che precedono e accompagnano il dialogo teologico, rendendolo meno traumatico e liberandolo da derive ideologiche, freddezza diplomatica e logiche politiciste; immettendovi un senso di fretta, e una svolta umana dai riflessi ecclesiali, più che di diplomazia ecumenica; coinvolgendovi anche le voci del mondo e del popolo. Nella consapevolezza, direi, che le forme storiche del dialogo sperimentate nel corso del Novecento si sono definitivamente esaurite, e che occorre andare oltre.
Da “Un tempo per tacere e un tempo per parlare. Il dialogo come racconto di vita” di Brunetto Salvarani (Città Nuova)