Dialogo, parola chiave
Dialogo, parola chiave del nostro mondo, spesso inflazionata o mal compresa, eppure di cruciale importanza. Se ne parla, ma anche se ne scrive molto. Fra le opere sull’argomento di recente pubblicazione si segnalano quelle di Brunetto Salvarani, uno degli esponenti più autorevoli nel nostro Paese in quanto a dialogo interculturale e interreligioso, capace di coniugare in modo efficace ed equilibrato l’impegno accademico a quello esistenziale. Lo dimostra il suo ultimo lavoro, Un tempo per tacere e un tempo per parlare, uscito per i tipi di Città Nuova Editrice. Ne abbiamo parlato con l’autore.
“Un tempo per tacere e un tempo per parlare”, un titolo che ricorda uno dei passi più efficaci della Scrittura: «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire» (Qohelet 3, 1-11).
Si tratta di un titolo inevitabile, e di un versetto che affiora continuamente nella mia vita, come ritengo nella vita di tanti, credenti in qualche dio o altrimenti credenti… Quando ci s’imbatte nel Qohelet, libro elettrizzante e carico di tensioni, forse il meno lineare dell’intera Bibbia, è impossibile rimanere indifferenti. Sorprendente, enigmatico, scandaloso, spiazzante – neppure tremila parole nell’originale ebraico, appena 222 versetti in tutto – produce nel lettore fascino o insofferenza, passione o irritazione. Il Qohelet è un testo di crisi per un’epoca di crisi e di contaminazioni culturali. Un libro contraddittorio, irrisolto, e per questo illuminante. Le Scritture sarebbero gravemente incomplete senza la presenza di Qohelet, anche se quest’ultimo si spinge a metterle in discussione, e alla luce della sua analisi restano in piedi tanti punti interrogativi, più che dei punti esclamativi.
Questo anche il taglio del suo libro che intende aiutare ad aprirci al “plurale”.
La Bibbia e i suoi vari canoni, infatti, non costituiscono l’affermazione di un’unica idea, di un’unica concezione di Dio, del cosmo e dell’uomo, bensì un “campo di tensioni” non di rado lacerante, all’interno del quale varie teologie e svariate antropologie si confrontano, talvolta si scontrano ed entrano in vicendevole relazione. La verità biblica, se bene intesa, ha carattere sinfonico e plurale. Il recupero delle relazioni con l’ebraismo e con gli ebrei ci potrà aiutare, e parecchio. Il Talmud, per esempio, non solo richiede sempre più opinioni sullo stesso argomento (davar ’acher), ma conserva anche gelosamente le opinioni dei perdenti, delle minoranze. Non tutte le discussioni talmudiche si concludono con una presa di posizione: in parecchi casi terminano con la parola tejku, acronimo della formula “il tishbita Elia verrà e deciderà”, che quindi significa “sospeso”. Perché non ci è dato ora di conoscere tutto. Probabilmente, si potrebbe dire che anche le nostre Chiese dovrebbero imparare a usare un po’ di più questa bella espressione e a concludere che forse…
Il suo è un libro autobiografico, ma ne esce anche un vero manuale di dialogo. Il lettore può attingervi per trovare una via personale all’incontro con gli altri. Era questa la sua intenzione originaria?
Riflettendo su come avrei potuto descrivere il dialogo, mi sono detto che la modalità più efficace sarebbe stata quella dichiaratamente autobiografica. Pian piano mi sono accorto che le esperienze di dialogo contrappuntavano parecchi degli eventi di cui sono stato protagonista o co-protagonista, e mi è risultato facile, oltre che piacevole, lasciarmi trasportare dalla memoria. È stata un’occasione importante per fare il punto, giunto a una fase particolare della vita, per ripensare a tanti amici e amiche e a tanti maestri e per storicizzare alcuni passaggi, individuali e collettivi, a 50 anni dalla fine del Vaticano II. Ho rivisto molteplici volti, ho ripreso in mano molti discorsi, e fatto il punto su numerose battaglie, più o meno riuscite ma sempre cariche di passione. Così, mi sono lasciato andare, guidato dalla voglia di narrarmi e dal piacere di scrivere, senza alcuna pretesa di esemplarità ma soprattutto con la speranza che altri, sulla mia scia, trovino il coraggio di raccontarsi. Meglio di quanto abbia saputo fare io, mi auguro.
Nelle prime pagine, lei parla del dialogo come di «un’arte che si impara, una scalata impervia che pure si deve affrontare […] cercando di fare il vuoto dentro di sé». In una società globalizzata e mediatica, è ancora pensabile “fare il vuoto” dentro di sé?
Qui sta l’estrema difficoltà della sfida del dialogo che abbiamo di fronte e che, di regola, produce in noi ansia, o ci mette paura. Eppure, per ricordare le parole di Giovanni Paolo II, spesso nella nostra Chiesa non prendiamo sul serio il fatto che «il dialogo non nasce da tattica o da interesse, ma è un’attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole» (Redemptoris missio, n. 56). Il mondo fa il suo mestiere, purtroppo, e di solito lo fa bene: siamo noi, cristiani delle diverse Chiese, che sovente non facciamo il nostro, e investiamo più nei nostri riferimenti religiosi e sacrali che sulla nuda sequela di Gesù. Di cristiani capaci di opporsi al clima sociale e culturale dominante, oltre che di fare il vuoto dentro di sé, ce sono stati, eccome. Penso a Francesco d’Assisi, che scrive a più riprese della necessità di «seguire nudo il Cristo nudo», e che non a caso si risolve a incontrare, in piena epoca di crociate, il sultano islamico Malik al-Kamil fino a inserire, nelle indicazioni rivolte ai frati che si sarebbero recati presso i musulmani, il dovere primario del rispetto e del dialogo. Tanto da affidare, al numero 16 della Regola non bollata, la più aderente al suo spirito originario, la credibilità del messaggio evangelico sine glossa prima alle opere e alla testimonianza esemplare, e solo in un secondo tempo all’esortazione verbale.
Qui c’è un nodo fondamentale: come armonizzare identità e apertura dialogica?
Lo stile dialogico nei confronti di qualsiasi alterità e persino di quell’alterità che ci abita (siamo stranieri a noi stessi, ha scritto Julia Kristeva) è la principale cartina di tornasole della nostra identità cristiana. Senza voler tirare papa Francesco per la giacchetta, ritengo che questo sia il senso dell’insistenza con cui egli ci invita a dialogare con chiunque, non facendo prevalere il naturale timore dell’altro che connota l’attuale condizione antropologica postmoderna. Una Chiesa fedele allo stile di Gesù non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, ma come spazio in cui le persone trovano la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la propria esistenza. I cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione di Dio propria di ogni religione, cultura e pensiero, invece di assumere continui atteggiamenti di svalutazione e condanna.