Dialogo nella notte
L’editore Marietti ha da poco ristampato un gioiello della letteratura del XX secolo: La moglie del procuratore, di Elena Bono, e al tempo stesso pubblicato Quando io ti chiamo, un denso ritratto a più voci della scrittrice di Chiavari e della sua opera, un invito a conoscere entrambe.
Sì perché malgrado gli elogi di fior di critici ricevuti in vita, e nonostante il sodalizio con l’editore Francangelo Scapolla, che l’ha pubblicata dal 1981 fino alla sua morte (per i tipi di EMMEE e poi Le Mani), procurandole una schiera di appassionati lettori che spesso l’hanno potuta incontrare personalmente, la Bono non ha avuto ancora il giusto riconoscimento del suo genio e soltanto una minoranza ha potuto apprezzare i suoi racconti, i suoi versi, le sue pièces teatrali. Motivo per cui questi due testi dovrebbero risultare per molti una salutare sorpresa, una boccata di aria pura in mezzo a tanto fumo letterario.
Qualcuno ha situato la Bono tra gli scrittori “mistici”, non già perché sia stata favorita da visioni soprannaturali, ma per la fortissima tensione spirituale che percorre tutta la sua opera, anche là dove non si accenna esplicitamente a Dio. Tuttavia, il riserbo in cui lei ama avvolgere ciò che ha a che fare con la persona divina tanto più ne richiama la presenza: come nei mosaici paleocristiani la raffigurazione del trono vuoto di Cristo è un potente evocatore di colui che già viene, anche se verrà definitivamente alla fine dei secoli.
Riguardo alla Moglie del procuratore, va precisato anzitutto che questo lungo racconto ora pubblicato a sé stante faceva parte, insieme ad altri quattro, di quello che viene considerato il capolavoro della scrittrice: Morte di Adamo (Garzanti 1956 – EMMEE 1988). Come già Anatole France e Gertrud von Le Fort, la Bono era stata affascinata dal personaggio di Claudia Serena Procula, di cui si trova cenno nel Vangelo di Matteo: «Mentre egli [Ponzio Pilato] sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: “Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua”».
Nel racconto la donna, ormai vedova, riceve dal filosofo Lucio Anneo Seneca, del quale è amica, l’invito a una serata nella sua villa romana sull’Esquilino per essere aiutata a liberarsi dai fantasmi del passato. Quando arriva, la festa volge al termine; in preda ai suoi tormenti, la donna cerca di confondersi tra gli altri prestigiosi invitati e ne ascolta le discussioni che palesano i diversi caratteri e le diverse correnti di pensiero. Come per prodigio, siamo trasportati nel mondo pagano fatto rivivere dalla Bono che, figlia di un insigne latinista, grecista e preside di liceo, ne aveva una conoscenza approfondita. È la prima parte di questo testo.
Nella seconda, monta il dramma: nella stanza assegnatale per il riposo notturno, Claudia tenta il suicidio con una fiala di sonnifero, ma viene salvata dal tempestivo intervento del filosofo e di una schiava. Segue, a tu per tu con Seneca in profondo ascolto, la lunga liberatoria confessione della donna: il racconto degli eventi relativi alla condanna infamante di Cristo; il suo vano tentativo per salvarlo; la rivelazione che Ponzio Pilato non è morto di morte naturale; l’assillo circa identità di quell’uomo crocifisso, fino alla risposta di disarmante semplicità datale dal centurione Marco, un uomo estraneo alla religione ebraica che ha assistito alla morte di quel giusto nel quale lui soltanto ha saputo riconoscere il Figlio di Dio. In questo quasi il lettore è via via coinvolto come in un vortice irresistibile, mentre aleggia la domanda di Pilato a Cristo: «Cos’è la verità?», origine dello squilibrio mentale che l’ha portato al suicidio.
Seneca rappresenta la summa di saggezza del paganesimo, che rimane però senza risposta e deve fermarsi di fronte alla soluzione proposta dalla vedova del procuratore: «Farsi un cuore diverso […] un cuore come quello de ladro che fu crocifisso con lui […] Abbandonare il cuore com’era… pieno di tutte le cose sue {…} e prenderne uno ignaro, docile, come dopo tutto può averlo, o è vicino ad averlo, un brigante… un centurione». Per il vecchio filosofo, tra i più onesti rappresentanti di un mondo in decadenza, è pura follia concepire un Dio capace di morire per amore dell’uomo. Il dialogo rimane quindi sospeso. Ma le ultime righe del racconto sono illuminanti: sostenendosi a vicenda, Seneca e Claudia salgono sulla terrazza dalla quale, nell’alba incipiente, potranno spaziare con lo sguardo su una Roma – la corrotta e sanguinaria Roma – coperta da un verginale manto di neve. Visione che è quasi presagio di un mondo nuovo e migliore, acquistato a caro prezzo da colui che è la Verità.