Dialogo interreligioso e annuncio

Nel ripercorrere il cammino del dialogo interreligioso, l’articolo delineo il tratto di strada che la Chiesa ha percorso dalla fine del Concilio Vaticano II fino al pontificato di Benedetto XVI. È forse il periodo più creativo e più ricco di tutta la sua storia
Concilio Vaticano II
 Subito dopo il Concilio, nel 1967, il “Segretariato per i Non Cristiani” – una creazione innovativa cui, tre anni prima, aveva dato vita papa Paolo VI – trova il suo posto organico nella Chiesa. Il compito che gli viene assegnato è quello di “cercare il metodo e le vie per promuovere un opportuno dialogo con i non cristiani. Si preoccupa dunque affinché i non cristiani vengano conosciuti in modo esatto e vengano giustamente stimati dai cristiani, e altrettanto affinché gli stessi [non cristiani] possano conoscere ed apprezzare equamente la dottrina e la vita cristiana” (Regimini Ecclesiae Universae, 99).

 

Paolo VI

Grazie anche all’attività di questo nuovo Segretariato, iniziarono, da tutto il mondo, le visite al Papa da parte dei capi religiosi e delegazioni delle varie religioni: nel 1972 il patriarca buddhista della Thailandia; nel 1973 il patriarca buddhista del Laos; nel 1974 il fondatore della Rissho Kosei Kai, e molti altri ancora. Il Papa stesso, nei suoi viaggi, incontra i musulmani in Turchia (1967) e in Uganda (1968), i rappresentanti delle varie religioni nelle Filippine e in Australia (1970), in India, durante il Concilio (1964).

Si intensificarono anche gli incontri e gli scambi di visite e di esperienza, già iniziati prima del Concilio, tra monaci cristiani e monaci buddhisti. Dall’Occidente si comincia ad andare in Oriente, in ambiente indù e buddhista e dall’Oriente si viene nei monasteri cristiani d’Occidente per momenti di comunione e di dialogo.

Grazie anche a questi numerosi contatti con le diverse religioni, Paolo VI, nel 1975, nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, parla della stima e del rispetto della Chiesa per le religioni non cristiane, in quanto “espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani. Esse – continua il Papa – portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare. Sono tutte cosparse di innumerevoli ‘germi del Verbo’”; nello stesso tempo il Papa ricorda come “né il rispetto e la stima verso queste religioni, né la complessità dei problemi sollevati sono per la Chiesa un invito a tacere l’annuncio di Cristo di fronte ai non cristiani. Al contrario, essa pensa che queste moltitudini hanno il diritto di conoscere la ricchezza del mistero di Cristo” (n. 53). In tali parole è già enunciato il tema del rapporto tra dialogo e annuncio: occorre cogliere e apprezzare il bello e il vero che c’è nell’altro e, allo stesso tempo, dire con franchezza la ricchezza della nostra fede.

 

Giovanni Paolo II

Il nuovo Papa, Giovanni Paolo II, fin dall’inizio del suo pontificato, porta avanti l’impegno di dialogo di Paolo VI e lo dilata enormemente, anche grazie ai suoi molteplici viaggi. Va ad incontrare i rappresentanti di varie religioni direttamente nei loro Paesi: i musulmani in Africa (1980), in Pakistan e nelle Filippine (1981), i membri religiosi del Giappone (1981), della Corea (1984). Memorabili i viaggi in Marocco, dove parla a migliaia di giovani musulmani e quello in India dove incontra gli Indù. Anche quando è ormai anziano non si stanca mai di mostrare la stima per le altre religioni. Da ricordare l’incontro, nel 2000, con i leader musulmani ad al-Azhar, al Cairo, e nel 2001, la visita alla moschea Omayyad a Damasco.

Accanto alle cosiddette grandi religioni storiche, Giovanni Paolo II ha saputo apprezzare anche le religioni tradizionali. Nel febbraio del 1993 a Cotonou nel Benin, rivolgendosi ai rappresentanti del Voudu, li loda per il loro attaccamento ai valori tradizionali pur riferendosi, allo stesso tempo, alla novità del Vangelo: “Siete fortemente attaccati alle tradizioni che vi hanno tramandato i vostri antenati… I vostri fratelli cristiani apprezzano, come voi, tutto ciò che è bello in queste tradizioni, poiché sono, come voi, figli del Benin. Ma essi sono altrettanto riconoscenti ai loro ‘avi nella fede’, a partire dagli Apostoli fino ai missionari, per aver annunziato il Vangelo. Questi missionari hanno fatto conoscere loro la ‘Buona Novella’ che Dio è Padre e che è sceso fra gli uomini attraverso suo Figlio, Gesù Cristo, portatore di un gioioso messaggio di liberazione”. Parole, queste del Papa, che testimoniano come dialogo e annuncio si armonizzano.

Ma il grande evento che rimarrà come icona dell’apertura di Giovanni Paolo II al dialogo interreligioso è l’incontro di Assisi, il 27 ottobre 1986, con i rappresentanti delle varie religioni in occasione della Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace. Il Papa, affidando al superiore generale degli Oblati di Maria Immacolata, Marcello Zago, il compito di preparare quella giornata di preghiera, gli disse: “Vorrei che l’incontro fosse il Concilio in miniatura, visibile per tutti”. Il Papa stesso, traendo una lezione dagli eventi di quella giornata, disse: “Cerchiamo di vedere in essa un’anticipazione di ciò che Dio vorrebbe che fosse lo sviluppo storico dell’umanità: un viaggio fraterno nel quale ci accompagniamo gli uni gli altri verso la meta trascendente che egli stabilisce per noi[1].

Il cambio del nome al “Segretariato per i Non Cristiani”, che avverrà poco dopo, nel 1988, non è senza significato: si chiamerà “Pontificio Consiglio  per il Dialogo Interreligioso”. Il dialogo è ormai una parola entrata a far parte del patrimonio della vita della Chiesa.

Sul sito vaticano del Dialogo Interreligioso si dice che esso “è impostato su un sistema di duplice comunicazione. Esso implica il parlare e l’ascoltare, il dare ed il ricevere, per il mutuo sviluppo e arricchimento. Si tratta di un dialogo che è testimonianza della propria fede ma, nello stesso tempo, un’apertura verso quella degli altri. Non è un tradimento della missione della Chiesa, e neppure un nuovo metodo di conversione alla Cristianità”.

I documenti del Magistero

Riguardo al tema particolare del rapporto tra dialogo e missione, tra dialogo e annuncio, nel 1984 il Segretariato ha emanato un primo grande documento: L’atteggiamento della Chiesa Cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni, riflessioni e orientamenti di Dialogo e Missione, e nel 1991 un secondo, congiuntamente con la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli: Dialogo e Annuncio. Tra questi due documenti si colloca l’enciclica del Papa Redemptoris missio (1990), che torna a puntualizzare la tematica.

Dialogo e Missione riafferma i principi del Concilio sulla positività delle religioni, che stanno alla base della possibilità del dialogo. Vi si legge: “In Dio noi contempliamo un amore preveniente senza confini di spazio e di tempo. L’universo e la storia sono ricolmi dei suoi doni. Ogni realtà e ogni evento sono avvolti dal suo amore… La Chiesa ha il compito di scoprire, portare alla luce, far maturare tutta la ricchezza che il Padre ha nascosto nella creazione e nella storia, per promuovere la circolazione tra tutti gli uomini dei doni del Padre” (n. 22).

Nella Redemptoris missio il Papa va più avanti ancora, scrivendo che lo Spirito Santo “opera oltre i confini visibili del Corpo mistico” (n. 16). I confini ultimi della Chiesa sono infatti quelli dove Cristo si fa presente: “ogni uomo senza eccezione alcuna è stato redento da Cristo, e con l’uomo, con ciascun uomo senza eccezione, Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole. Cristo per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo – ad ogni uomo e a tutti gli uomini – luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione” (n. 14).

In Dialogo e Annuncio una ulteriore novità, anche rispetto al Concilio: nelle religioni si riconosce non soltanto la presenza di valori positivi e elementi di verità e di grazia, ma anche  la presenza attiva del Regno di Dio, che va al di là dei confini della Chiesa: “la realtà incoativa [ = nel suo inizio] di questo Regno si può trovare anche oltre i confini della Chiesa” (n. 35).

Questo stesso documento, ai nn. 8-10, richiama e precisa i tre termini:

– evangelizzazione: riguarda la missione della Chiesa nel suo insieme, ossia – e qui si richiama l’Evangelii nuntiandi di Paolo VI – “portare la buona novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa”;

dialogo: “l’insieme dei rapporti interreligiosi, positivi e costruttivi, con persone e comunità di altre fedi per una mutua conoscenza e un reciproco arricchimento” – citazione del documento Dialogo e missione;

– annuncio: “è la comunicazione del messaggio evangelico… È un invito a un impegno di fede in Gesù Cristo, un invito a entrare mediante il battesimo nella comunità dei credenti che è la Chiesa”.

Dialogo e annuncio sono due espressioni della stessa missione evangelizzatrice della Chiesa. Del dialogo in particolare si riconosce che esso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa”, e che “non nasce da tattica o da interesse, ma è un’attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole” (RM, 55).

Esso non è una semplice preparazione al compito di proclamare o annunciare Gesù Cristo e di invitare le persone a divenire membri della Chiesa attraverso il battesimo. Esso ha lo scopo di far sì che le persone di diverse religioni possano vivere in armonia e pace, si comprendano meglio fra loro, lavorino insieme a favore dell’umanità e si uniscano gli uni gli altri per rispondere alla chiamata di Dio, nella ricerca della Verità.

Come vivere il dialogo?

Sulla base della presenza dello Spirito in tutte le autentiche espressioni religiose, il documento Dialogo e Missione riconosce nel dialogo l’esigenza di apertura ad una reciprocità di doni. Se “il cristiano normalmente nutre nel suo cuore il desiderio di condividere la sua esperienza di Cristo con i fratelli di altra religione”, “è altrettanto naturale che l’altro credente desideri qualcosa di simile” (n. 40).

Perché questa reciprocità porti frutto occorre apertura all’altro, senza pregiudizi, e insieme identità propria; che ognuno mantenga salda l’adesione alla verità delle rispettive convinzioni. Padre Zago diceva: “Più ci si apre e più le proprie radici devono essere profonde e larghe, come l’albero più alto e con una più grande chioma ha bisogno di radici più profonde e più estese[2].

La consapevolezza della propria identità, come ha spiegato Giovanni Paolo II ai capi religiosi dell’Indonesia, “non implica in alcun modo l’essere chiusi agli altri”. E questo per due motivi. Anzitutto perché “la conoscenza della verità ci impegna a dividere il dono che abbiamo ricevuto insieme agli altri”. Inoltre perché “il dialogo improntato al rispetto con gli altri ci permette di essere arricchiti dalle loro vedute, sfidati dalle loro domande e forzati ad approfondire la nostra conoscenza della verità[3].

Già il Concilio Vaticano II ricordava che lo scambio del dialogo “avviene allo scopo di aiutarci vicendevolmente nella ricerca” e “gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperto o che ritengono di aver scoperto” (DH, 2). E il documento Dialogo e missione: “i cristiani incontrano i seguaci di altre tradizioni religiose per camminare insieme verso la verità” (n. 13). La verità ci trascende costantemente. Più che possederla, siamo da essa posseduti e sempre ci dischiude nuove profondità.

Dal dialogo sincero, afferma Dialogo e annuncio, scaturisce una maggiore luce proprio per la comprensione della nostra stessa fede: “La pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli cristiani la garanzia di aver assimilato pienamente tale verità. In ultima analisi, la verità non è qualcosa che possediamo, ma una persona da cui dobbiamo lasciarci possedere. Si tratta di un processo senza fine” (n. 49). Incontrare l’altro per renderlo più se stesso e per diventare più se stessi.

Mons. Rossano, segretario del Pontificio consiglio, arrivava a scrivere che forse “l’economia cristiana non sarà conosciuta e sviluppata in tutte le sue virtualità fino a quando non sarà stata pensata, interpretata, vissuta nelle categorie religiose di tutti i popoli. Parallelamente si può ritenere che, a contatto di essa, le tradizioni religiose dei popoli avranno la possibilità di sollevare ed esprimere il meglio di quello che portano in seno[4].

A sua volta l’apporto della nostra Chiesa può essere sempre più determinante per salvaguardare gli stessi valori delle altre religioni. La Chiesa crede infatti nei semi del Verbo ovunque presenti, e valorizza tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, lodevole, bello, buono… (cf. Fil 4, 8).

Perché questo sbocciare pieno della Verità? Perché nell’unità tra le persone si fa presente la Verità stessa, come ha chiaramente affermato Giovanni Paolo II a Madras, in India: “Il frutto del dialogo è l’unione tra gli uomini e l’unione degli uomini con Dio, che è fonte e rivelazione di tutta la verità e il cui Spirito guida gli uomini alla libertà quando questi vanno incontro l’uno all’altro in tutta onestà e amore. Attraverso il dialogo facciamo sì che Dio sia presente in mezzo a noi; poiché mentre ci apriamo l’un l’altro nel dialogo, ci apriamo anche a Dio”. Per questo, concludeva, “il dialogo è un mezzo per cercare la verità e condividerla con altri[5].

Come attuare l’annuncio?

 

Proprio perché il dialogo è reciprocità di dono e di accoglienza esso implica l’annuncio, nel quale “il processo dinamico della missione evangelizzatrice della Chiesa raggiunge il suo culmine e la sua pienezza” (DA, 82).

Come attuare l’annuncio? Cerco di dirlo attraverso l’esperienza dell’incontro con il reverendo Nissho Takeuchi della Nichiren-shu, una delle molteplici correnti del buddismo giapponese.

L’abbiamo incontrato in tutti i simposi organizzati dal Movimento dei Focolari, lo abbiamo aiutato nel suo lavoro, i membri del Movimento lo hanno accolto ovunque con grande amore.

Quando siamo stati in Giappone per il simposio buddhista-cristiano, siamo andati a trovarlo nel tempio moderno che ha costruito a Osaka, là dove un tempo sorgevano le industrie belliche; un luogo nel quale i ripetuti bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale hanno causato migliaia di morti. Il reverendo Takeuchi ha scelto quel luogo per far salire una incessante preghiera per tutte le vittime della guerra.

Ci accoglie con molto calore e molti inchini. Ci introduce nel tempio acceso da colori vivaci tra cui predomina il rosso e l’oro dei legni laccati. Con l’assistenza di due sue discepole prega solennemente accompagnato dal suono del gong e dei sistri. Avverto tutta la sacralità e il peso di una tradizione millenaria, nata ben prima dell’avvento di Cristo. Anche più tardi, nella permanenza in Giappone, mi trovo davanti a monaci di grande levatura morale. E da buon Missionario Oblato di Maria Immacolata mi domando: In questi ambienti, come in quelli indù o musulmani, è possibile annunciare il Vangelo? In Giappone i cristiani non sono neppure mezzo milione, in una popolazione di 127 milioni. Possiamo dire che la Chiesa è quasi ferma al tempo di san Francesco Saverio. In realtà i nostri missionari, che hanno fatto breccia nelle religioni tradizionali, tra le minoranze etniche, non hanno minimamente scalfito le grandi tradizioni religiose.

Lascio cadere gli interrogativi e, dopo un intenso pomeriggio di dialogo, Nissho Takeuchi ci conduce in un albergo d’alta classe nel cuore della città, dove ogni mese introduce nella tecnica di rapporti umani autentici centinaia di dirigenti di azienda e uomini di affari provenienti da tutto il Giappone. Prima di cena una passeggiata nell’antico giardino tradizionale della meditazione, con steli, rocce, laghetto, bonsai… La cena, imbandita in una sala tutta per noi, a base di pesce crudo, secondo la più pura arte culinaria giapponese, è impreziosita dal clima creato dalla musica di sottofondo, dalla disposizione delle orchidee, dagli stessi camerieri e cameriere in alta uniforme…

Arriva il momento propizio nel quale domandargli: “Perché non ci racconta della sua vocazione monastica?”. Il reverendo Takeuchi sembra colto di sorpresa, forse nessuno glielo ha mai chiesto. E parla, e parla… In risposta al dono anch’io gli racconto della mia vocazione, della mia prima preghiera, che ripete le parole dell’apostolo Tommaso: “Mio Signore, mio Dio” (e sono costretto a narrargli tutto il brano evangelico perché possa capire la preghiera…). Si commuove. Il volto austero e severo si trasfigura. Il clima di confidenza e di intimità che si sta creando mi consente di dirgli: “Mi sembra di vedere in lei un bambino evangelico”. E gli parlo del Vangelo, di Gesù. “Vorrei conoscere anche le esperienze degli altri”, ci dice. Ad uno ad uno ognuno del nostro gruppo di cristiani racconta il proprio incontro con Dio, le proprie esperienze di vita.

L’unità, costruita nei precedenti incontri, porta i suoi frutti.

Abbiamo terminato da tempo di mangiare, ma nessuno si muove. I camerieri hanno fatto tacere la musica e, assieme ai segretari, stanno lì immobili ad ascoltare. Su molti volti vedo scendere le lacrime. È normale, per noi che raccontiamo le nostre storie, citare costantemente parole e fatti di Gesù. Mai, come in quell’ambiente buddista, mi rendo conto di quanto le nostre vite cristiane siano impregnate di Vangelo. Ed il Vangelo fluisce limpido da ogni nostro racconto. Dall’altra parte non c’è nessuna barriera, nessuna resistenza, nessun pregiudizio. Le parole di Gesù vengono bevute con naturalezza e penetrano. Si sperimenta quella presenza di Dio tra noi di cui Giovanni Paolo II aveva parlato in India.

Abbiamo evangelizzato? Sì. Non ce l’eravamo prefisso. Eravamo stati semplicemente a restituire la visita ad un amico. Ci eravamo interessati a lui, al suo tempio, al suo lavoro, al suo mondo. Ora egli aveva voluto sapere di noi. E gli abbiamo raccontato di noi, della nostra vita di cristiani, che non può non essere evangelica. Così il Vangelo è passato ed è stato accolto: un Vangelo annunciato con la vita.

“Farsi uno”

Il nostro dialogo nasce proprio dal “farsi uno” dell’amore, dall’ascolto sincero, dal saper posporre quanto si possiede per accogliere veramente l’altro, “capirlo”, ossia prenderlo dentro di noi, fatti “vuoti” dall’atteggiamento dell’amore. Solo così nell’altro possono emergere e sprigionarsi i semi del Verbo e i raggi dello Spirito in lui presenti e operanti, come già ricordava il Concilio Vaticano II: soltanto l’amore fa entrare in un rapporto gratuito con gli uomini e le donne del nostro tempo, così da giungere a “conoscere bene le tradizioni culturali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che in loro si nascondono… Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli traverso un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, dimostrando tutte le ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli, ed insieme tentando di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, e di liberarle e di riferirle al dominio di Dio Salvatore” (AG, 11). Si va verso l’altro non per annunciare, ma per amare, per servire, e poi ci si ritrova ad annunciare perché l’amore ha bisogno di condividere.

Se infatti l’ascolto è stato attento, l’interesse al mondo dell’altro sincero, l’aiuto concreto, se davvero si sono instaurati rapporti di stima, di amicizia, anche l’altro vorrà interessarsi a noi e, a sua volta, “si farà uno” con noi. Potremo allora parlare a nostra volta, comunicare la nostra esperienza di fede, ciò che ci motiva. Il dono di noi sarà il dono di ciò che abbiamo di più nostro: il Vangelo vissuto. L’evangelizzazione risulterà non una ostentazione o una imposizione, ma una condivisione.

 



[1] Cf. F. Ciardi, La giornata di Assisi 1986 riletta nell’esperienza di Marcello Zago, in Nuova Umanità, XXX, 196-197/2011, pp. xx-xx

[2] Marcello Zago, uomo del dialogo. Un’antologia, a cura di F. Ciardi, Ancora, Milano 2007.

[3] Jakarta, 10 ottobre 1989, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XII/2, pp. 838-839.

[4] P. Rossano, Il problema teologico delle religioni, Ed. Paoline, Catania 1975, pp. 44-46.

[5] 5 febbraio1986, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX/1, pp. 322-323.

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