Il dialogo che disarma, la resistenza della relazione
Un missile potrà attraversare il cielo sopra diverse nazioni, raggiungendo l’obiettivo prefissato, rasando al suolo un quartiere residenziale piuttosto che una fabbrica di munizioni, distruggendo abitazioni, oggetti, straziando le vite di soldati, anziani, donne e bambini. Armi militari che annientano vite e relazioni umane.
Un fucile potrà minacciare, spaventare ed intimorire, costringendo i prigionieri a piegarsi al volere del tiranno. E poi?
L’invasore sfogherà tutta la sua rabbia e la sua forza sul debole indifeso, eseguendo ciecamente gli ordini di un presidente dittatore che assiste all’operazione militare (o meglio, al massacro dell’umanità!) seduto comodamente nel suo salotto, ben lontano dal sangue dei bambini ucraini che ogni giorno muoiono sotto i mortai. E poi ?
Muoiono uomini, donne, anziani, bambini, persone fragili e indifese, famiglie intere che cercano a fatica di improvvisare la fuga per la salvezza, verso un mondo migliore, più sicuro, almeno dalle bombe: e tra i morti non ci sono ucraini, russi o persone di altre nazionalità, perché l’uomo è uomo e basta, a prescindere dai colori di una bandiera. È l’umanità che sta morendo istante dopo istante, uccisa dall’odio, dalla violenza e dal potere tiranno.
Di pancia, vorrei offrire armi, aerei, granate agli ucraini ma, tra qualche tempo, so che mi ritroverei a dover offrire le medesime armi ai russi, poi ai polacchi, e poi ancora ai turchi, ai moldavi, agli albanesi: quale è il senso ultimo di tutto questo? Venderci e prestarci armi a vicenda, per ammazzarci tutti quanti! Ecco il senso, ecco il prezzo finale, quello che accontenta ( alla fine), gli uomini “potenti” della Terra.
Innanzi ad una operazione militare, ad un massacro ormai iniziato (e sempre più prolungato), come può reagire l’umanità? Quale resistenza è possibile mettere in campo tra le due realtà e cioè tra l’invasore e l’aggredito? Molte nazioni sostengono il diritto a resistere degli ucraini innanzi all’aggressore, ma a quale prezzo? Esistono anche nel diritto internazionale i principi di precauzione e di proporzionalità, oppure vale la regola che l’operazione militare (cioè il massacro disumano) deve continuare finché ci saranno più armi disponibili ( e finanziatori disposti a procurarle) e, soprattutto, uomini, anziani, donne e bambini da utilizzare come bersaglio ?
E’ davvero questa la potenza suprema di uno Stato come la Russia, come l’Ucraina…ma anche come gli Stati Uniti, la Cina, l’Europa…e l’Italia? Io credo di no.
Questa, semmai, è la potenza cieca dei presuntuosi, convinti di salvare un uomo, una casa, un terreno, una identità con la sola forza dei fucili, delle bombe, della guerra e del sangue versato.
Sappiamo dove portano queste operazioni militari e, adesso che ci toccano più da vicino, iniziamo ad avere qualche paura in più e temiamo che possa accadere quello che mai avremmo voluto immaginare per noi e per i nostri figli: un nuovo conflitto mondiale. Ma i conflitti sono sempre mondiali perché, in un modo o nell’altro, prima o poi, qualsiasi guerra si riflette sulla vita di tutti i popoli della Terra. Le guerre non riguardano solo alcuni uomini o qualche determinato Stato.
Purtroppo sono paure reali, che hanno un fondamento ben radicato negli accadimenti di questi giorni. Con le armi ci si fa male. Non è un gioco. Ma qualcuno, con questo delirio di onnipotenza, ci sta davvero giocando ( sulla pelle degli altri) volendo dimostrare, innanzi all’umanità tutta, che è più forte e più potente, appunto. Tanto che questo delirio di onnipotenza si protrae anche durante i “cessate il fuoco” previsti per i corridoi umanitari. Ed ancora, spari, invasioni e violenze belliche e bombardamenti proseguono anche nel corso dei tentativi di negoziazione diplomatica.
Come a dire: l’operazione militare ha davvero voce in capitolo, perché le parole non servono ( a quanto pare), per il dittatore.
Ed invece, ancora una volta, sarà la parola a salvare l’uomo; le nazioni, i popoli, gli uomini di questa Terra torneranno a dialogare ed allora questa parola, il dialogo e la capacità di incontrarsi e di relazionarsi nei momenti più bui di questa co-esistenza, saranno l’unico strumento davvero disarmante per ritrovare un possibile nuovo percorso di pace, nel quale siamo chiamati tutti ( nessuno escluso) a camminare insieme.
Il conflitto, sia esso sociale o politico o economico, caratterizza l’umanità e spesso ( molto più di quanto immaginiamo) sono le nostre stesse decisioni e le nostre azioni quotidiane che sono chiamate a dare una risposta concreta a questo conflitto.
San Giovanni Paolo II, nella Centesimus annus, ha affermato che la Chiesa non intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale: «la Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza» ( 223 Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 14: AAS 83 (1991), 810, richiamato da Papa Francesco, Fratelli Tutti, punto 240)
Nel secondo dopoguerra sono riemerse le tematiche giusnaturalistiche ed abbiamo assistito ad una rinnovata codificazione del diritto alla resistenza in alcune carte costituzionali come l’art.20, par.4 della Legge fondamentale in Germania ( 1949) e l’art.21 della Costituzione del Portogallo ( 1976), pur prevalendo gli orientamenti conservativi.
In Italia, la proposta di inserire espressamente il diritto alla resistenza nel testo costituzionale (presentata nell’Assemblea costituente da Giuseppe Dossetti), non venne approvata in quanto la maggioranza ritenne che la resistenza all’oppressione o alla tirannia fosse un fatto politico fondamentale non traducibile in termini giuridici.
Secondo Alessandro Passerin d’Entrèves (filosofo, accademico, partigiano e storico del diritto italiano), all’interno di una società libera e democratica, le sole forme di resistenza legittime sarebbero rappresentate dall’obbedienza passiva ( come il rifiuto di obbedienza ad una o più norme considerate inaccettabili per ragioni di principio, al quale si accompagni l’accettazione rassegnata della sanzione) nonché dall’obiezione di coscienza e dall’obbedienza civile.
Una vera democrazia non dovrebbe prevedere, a garanzia di essa stessa, un diritto di resistenza? E se non è fattibile per l’uomo resistere innanzi all’ingiustizia di un governo autoritario e tiranno, è possibile tramutare la resistenza in fuga e, conseguentemente, nel diritto di accoglienza in altri stati veramente democratici ?
Ed allora, non solo a livello locale o Europeo ma a livello internazionale, pensiamo all’effettiva necessità di incrementare e semplificare la concessione di visti umanitari, di adottare programmi di patrocinio privato e comunitario, di aprire corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili, offrendo una dimora decorosa e garantendo la sicurezza personale e l’accesso ai servizi essenziali alla persona.
Papa Francesco, in Fratelli Tutti, sottolinea che «l’iniquità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni internazionali», precisando che la giustizia esige di riconoscere e rispettare non solo i diritti individuali ma anche i diritti sociali e i diritti dei popoli, assicurando a questi popoli, in primis, il diritto alla loro stessa sussistenza e al loro progresso umano e sociale che è, sempre più spesso, fortemente condizionato, ad esempio, dal debito estero: orbene, questi uomini, famiglie, nazioni intere colpite dall’iniquità, non hanno il diritto di resistere innanzi all’ingiustizia e alla tirannia ?
Occorre ripensare (e ricostruire) l’etica delle relazioni, appunto, anche in ambito internazionale. Russi, ucraini, europei, americani, asiatici: insieme, occorre ritrovare la capacità di stare ( e resistere) nella relazione, perché le parole resistono, ci tutelano e rimettono al centro la nostra umanità. Dialogare è l’unica arma possibile per salvare l’uomo, l’umanità e la co-esistenza umana. Le operazioni militari, forse, consentiranno (a quale prezzo?) di spostare determinati confini di una qualche potenza o tirannia ma i veri confini dell’umanità si trovano altrove, non di certo su una cartina geografica.