Dialogo con l’islam? Il caso Maghreb
Èterribilmente presto. Tirare rassicuranti conclusioni non è proprio il caso. Soprattutto nel clima di vittoria del momento, quando ci si potrebbe illudere che con la conquista dell’Iraq siano diminuiti i problemi legati al rapporto tra culture e tra religioni nella vasta e calda regione araba. La netta, inequivocabile e più volte ribadita posizione del papa contro l’attacco armato e le dichiarazioni di condanna delle diverse chiese hanno messo in evidenza la marcata distinzione tra l’occidente politico dell’alleanza anglo-americana e l’occidente religioso della cristianità. Le distanze non erano mai state così profonde come al presente. Ma non è detto che tanta lontananza possa scongiurare reazioni terroristiche ad opera di estremisti che, nella loro furia vendicativa, non guardano per il sottile. Gli episodi in Pakistan, ad esempio, sono ancora impressi nella memoria delle comunità cristiane. Giovanni Paolo II è stato esplicito, ma resta legittima una domanda: a quanti musulmani sono arrivate le sue parole per maturare la distinzione tra l’occidente che prega e l’occidente che spara? Nella nuova situazione internazionale, tutta da definire, uno degli scenari con molte incognite riguarda il rapporto tra le due grandi religioni monoteiste e il tipo di evoluzione che la relazione assumerà. In questa prospettiva, può offrire utili indicazioni la vasta regione del Maghreb – che abbraccia i paesi di fede islamica del Marocco, dell’Algeria, della Tunisia – e della Libia quale laboratorio di convivenza tra la maggioranza musulmana e le piccole comunità cristiane: 100 mila cristiani su 4 milioni di abitanti in Libia, 15 mila su 9 milioni in Tunisia, 30 mila tra 30 milioni in Marocco. In Algeria sono solo alcune migliaia su una popolazione di 30 milioni, ma la situazione è più complessa. La violenza fondamentalista ha armato la mano di piccoli gruppi di musulmani che hanno compiuto gesta efferate. Diciotto religiosi e religiose e numerosi laici credenti sono stati trucidati. Della lunga e grave crisi del paese ha sofferto mons. Henri Teissier, francese di Lione, in Algeria dal 1948, arcivescovo di Algeri dal 1988 e presidente della conferenza episcopale del Nord Africa dall’anno successivo. Rischio di contraccolpi, con la nuova situazione in Iraq? “Con la nuova crisi, aperta dall’attacco armato in Iraq, noi temiamo che si rafforzino i pregiudizi dei musulmani già persuasi che una relazione pacifica con l’occidente non sia possibile. Qualcuno può ritenere che siamo solidali con chi ha scatenato l’attacco armato e mettere in difficoltà il buon rapporto con tanti musulmani che adesso potrebbero sentirsi malvisti dai loro compatrioti”. Motivi di speranza ne ha? “Uno dei segni di speranza giunge dal fatto che molti fratelli e sorelle musulmani cercano un rapporto con le comunità cristiane. Qui in Algeria, non riusciamo, soprattutto in questo momento, a soddisfare le richieste di collaborazione che giungono da associazioni, istituzioni e gruppi, tutti desiderosi della presenza di cristiani quando organizzano qualcosa. L’università delle scienze islamiche di Costantina o il centro culturale islamico della stessa città, ad esempio, invitano da molti anni i cristiani alle loro iniziative. Così pure l’università di Mostaghanam. E questo avviene anche in Marocco e in Tunisia. Dopo gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, molti musulmani vogliono assicurare che l’islam in cui vivono è l’islam dell’apertura, della relazione verso l’altro”. Le comunità cattoliche del Maghreb sono costituite da stranieri. Secondo lei, questa caratteristica è un limite nella relazione coi musulmani o offre anche opportunità? “Penso siano vere entrambe le cose. Molti magrebini faticano a comprendere che in Medio Oriente ci possa essere sia la fede islamica che quella cristiana. E quando viene un cristiano del Medio Oriente, ci vuole sempre del tempo prima che i magrebini riescano a capire che l’identità araba del nuovo arrivato è incontestabile quanto quella dei suoi compatrioti. “Il fatto di essere stranieri offre la possibilità di non “entrare in concorrenza” con i musulmani. Essi comprendono che chiunque venga dall’Europa è verosimilmente cristiano. Il dialogo, a quel punto, è nello stesso tempo tra cristiani e musulmani, ma anche tra europei ed arabi. Da una decina d’anni, e sempre più, la comunità cristiana è composta da stranieri di varie nazionalità: non più solo italiani in Libia, francesi in Tunisia, Algeria e Marocco, spagnoli nella diocesi di Tangeri. È il segno dell’universalità del cristianesimo”. Cosa si auspica per i cattolici? “Mi sta a cuore far comprendere il tipo e il significato della missione della nostra chiesa, presente qui per stabilire una relazione evangelica con le popolazioni del Maghreb. La comunità cristiana è chiamata a testimoniare una vita di fraternità che porta la pace, stando vicina all’immensa maggioranza di nostri fratelli e sorelle di fede musulmana. “Eppure molti cristiani che vivono a nord del Mediterraneo si chiedono quale sia il senso del nostro stare qui. Resto sempre estremamente stupito quando, per esempio, vado in Spagna e sento parlare di missioni in America Latina, lontane migliaia di chilometri, mentre nessuno parla del Marocco, che si trova a qualche decina di chilometri”. Anche in Europa un diffuso ed errato atteggiamento mentale porta a identificare il musulmano con il terrorista. Cosa pensa la comunità cattolica algerina? “La comunità cristiana ha voluto restare fedele alla sua vocazione per testimoniare che si può vivere insieme cristiani e musulmani. Se fossimo partiti quando siamo stati attaccati, avremmo dato adito ad una precisa considerazione: “Vedete bene che non si può vivere tra i musulmani”. Quelli che ci hanno attaccati sono piccoli gruppi dediti a forme di violenza estrema. Ma non hanno risparmiato nemmeno la comunità algerina. Sono stati uccisi 120 o 130 imam e 100 mila, 120 mila fedeli musulmani. Nonostante dieci anni di violenze, non bisogna ridurre la comunità musulmana agli estremisti”. Quali le prospettive internazionali possibili? “L’avvenire del mondo pone cristiani e musulmani nell’obbligo di ricercare un rapporto: gli uni e gli altri insieme sono quasi la metà della popolazione del pianeta. In molti paesi esistono situazioni in cui i primi sono minoranza e i secondi maggioranza, con il rischio che questi schiaccino quelli. Tali situazioni devono essere materia di riflessione comune per evitare il prolungarsi delle ingiustizie”. A quali contesti si riferisce? “Nel nord della Nigeria, ad esempio, c’è tensione tra musulmani e i cristiani che vanno là a lavorare dal sud. Il fatto che in quel paese ci siano due comunità molto numerose (oltre 40 milioni ciascuna) obbliga a considerare quella crisi non più un affare interno alla Nigeria. Le tensioni possono scatenare ripercussioni negli altri paesi dove coesistono comunità musulmane e cristiane, come in Costa d’Avorio, in Ghana, nel Mali, in Senegal, in Burkina Faso. È assolutamente necessario che le relazioni si sviluppano positivamente. Il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ha moltiplicato iniziative e incontri con i rappresentanti delle varie istituzioni internazionali musulmane, dalla Libia all’Arabia Saudita, compreso il congresso islamico mondiale”. L’Algeria offre un apporto specifico? “Tra cristiani e musulmani abbiamo iniziative comuni in vari campi, ad incominciare da quelle rivolte ai giovani. La collaborazione si è sviluppata nell’ambito umanitario e sociale, assistendo insieme i portatori di handicap e i profughi saharawi. Numerosi sono i legami con le associazioni che aiutano le vittime della violenza degli ultimi anni. Intorno alla Caritas si è creata una rete d’amicizia e anche nell’ambito culturale, come ricordato, si vanno moltiplicando le attività comuni”. Una ricchezza d’iniziative. Ma i critici potrebbero chiederle: cambia qualcosa? “Il quartiere Bab el Oued di Algeri è stato colpito da un’inondazione, oltre 700 i morti. Abbiamo lavorato con le persone del posto. Lì agiva già una piccola comunità, chiamata “Il pane di Vita”, mentre da poco era scomparsa un’assistente sociale cristiana, al servizio di quella popolazione per 35 anni, apprezzata dai musulmani. Con un gruppo di giovani islamici è iniziata una proficua collaborazione anche a favore dei ragazzi del posto. Qualche settimana fa, a cena da me, abbiamo parlato dell’evoluzione della mentalità della gente del quartiere. Per molti anni, avevano sentito soltanto le prediche di un leader islamico estremista”. Il nostro augurio è che una condotta tanto sciagurata come l’avventura militare irachena non comprometta una così delicata tessitura di rapporti. R/