Dialogare, in coppia, di violenza di genere

Laddove femminicidi e la violenza di genere provocano un trauma sociale, creare spazi di dialogo all'interno della coppia può generare significati condivisi e offrire un'opportunità per comprendere più approfonditamente le prospettive reciproche. Dare voce alla prospettiva femminile e ascoltare attentamente può contribuire a creare nuovi tessuti narrativi di senso attorno al non-senso prodotto dalla violenza
Giornata contro la violenza sulle donne Foto Filippo Ciappi/LaPresse

Tra il silenzio e il rumore, finalmente, ha vinto il rumore.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha suscitato reazioni quantitativamente e qualitativamente diverse da quelle riservate a casi simili anche recentissimi. La diversità potrebbe trovarsi nella trama narrativa di quanto accaduto, e nei protagonisti della vicenda.

Sì, perché la comprensione sistemica di un trauma sociale come questo necessita, per essere digerita, del linguaggio e degli strumenti tipici del narrare: la vicenda dei due ragazzi scomparsi, il sospetto che già quasi da subito si fa certezza, la realizzazione di quanto tutti temevano.

La “narratrice”, ovvero la figura capace di trasformare la tragedia privata in fatto pubblico, è stata suo malgrado la sorella Elena che, come figure analoghe alla sua (Ilaria Cucchi o Paola e Claudio Regeni), ha avuto l’intuizione e la forza di unire la propria storia di vittima alla grande storia di una violenza sistemica.

Elena ha capito che per far sopravvivere la memoria di sua sorella era necessaria un’opera collettiva. E ha subito trovato riscontro nell’opinione pubblica, perché la violenza genera caos e buchi traumatici di significato, e per ricucire quel buco abbiamo bisogno di nuove narrazioni per dare un senso alla crudeltà. Per la prima volta in Italia, questo trauma ha fatto compiere alla violenza di genere uno scarto: da problema femminile, a fenomeno figlio di una cultura condivisa.

Nell’America Latina degli anni ‘70 nacque la psicologia della liberazione: un approccio di risposta critica alle tradizionali teorie psicologiche, accusate di ignorare o sottostimare l’impatto delle disuguaglianze sociali, dell’oppressione e della discriminazione sulla salute mentale. Uno dei principali cambiamenti da apportare alla psicologia mainstream era il passaggio dal metodo terapeutico individuale a quello collettivo: se la psicopatologia è un intreccio tra personale e pubblico, la guarigione è vista come lo sviluppo di una nuova identità sociale; le persone possono uscire dalla spirale di violenza e non-senso attraverso il dialogo, la riflessione condivisa e l’azione.

Mai come in questi giorni l’uomo, il “maschio”, è stato invitato, chiamato o spinto a guardarsi dentro, a interrogarsi sui fili invisibili lunghi secoli che l’hanno posto al centro della narrativa filosofica, politica, economica, culturale e sociale. Ecco, forse è arrivato il momento in cui fermarsi e accogliere l’invito che a noi uomini viene posto. Si coglie, forse per la prima volta, un’opportunità per portare avanti il discorso del rapporto tra i generi attorno al concetto di potere, reale e (non) percepito.

Un trauma sociale può essere ricucito solo collettivamente. E se è vero che stanno venendo meno e sono sempre più necessari nuovi spazi di aggregazione e di dialogo, è anche vero che il primo collettivo che abbiamo a disposizione è la coppia.

Il nostro Altro (fidanzato, moglie, compagno o compagna di vita) è il primo volto con cui misurarci – laddove, ovviamente, non sia proprio la coppia il motore della violenza. Però, in una coppia che si dica e voglia essere non solo non violenta, ma motore di un cambiamento, lo spazio privato può trasformarsi in laboratorio di nuove narrazioni sociali. Parlare insieme di come si vede il mondo ci permette di scoprire significati condivisi altri e più generativi.

Per questo oggi è necessario, per chi vive una relazione di coppia, fermarsi e parlare di questi temi: del nostro genere, della nostra identità, della violenza visibile e invisibile che ha attraversato o tuttora attraversa le nostre vite. Prendiamoci il tempo per parlare, a tu per tu, non solo di chi siamo noi come singole persone, ma di chi siamo in quanto parte di un gruppo sociale più largo: come ti senti in quanto donna, come ti senti in quanto uomo, che rapporto c’è tra donne e uomini, che rapporto ci dovrebbe essere, cosa ci piace di quello che c’è, cosa invece raderemmo al suolo.

Vuole, questo, essere soprattutto un invito a noi uomini ad ascoltare, a fare un passo di lato, a entrare nella prospettiva delle donne. In quanto portatori di un privilegio invisibile ma tangibile, dobbiamo fare lo sforzo maggiore, creare uno spaesamento per toglierci dal luogo conosciuto e più comodo in cui stiamo. Se si vuole, può però essere un invito anche alle donne, a sostenere e incoraggiare questo dialogo, il più possibile senza giudizio – per quanto non essere socialmente sullo stesso piano generi rabbia condivisibile.

Tra il silenzio e il rumore, questa volta, ha vinto il rumore. Dev’essere il rumore del vociare e del dialogare nuovo che uomini e uomini, uomini e donne, coppie, amiche e amici hanno messo in atto. Dev’essere il rumore del ricostituirsi del tessuto narrativo che circonda il genere, la violenza, il potere – dopo lo squarcio della morte di Giulia. Se si ricostituirà con fili nuovi o sarà solo un rattoppamento di ciò che c’era prima, dipenderà in gran parte dalla nostra capacità di leggerci, ascoltarci, narrarci. E amarci, davvero.

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