Dialogare è mettersi nelle scarpe dell’altro
«Abbiamo deciso di smettere di difendere ciò che siamo e di aprire gli orecchi della mente. Pronti a lasciar trasformare noi stessi da questo dialogo». Esordisce così Eric Tvsi Blanchard, rabbino di New York incontrando i numerosi giornalisti intervenuti nella sala Marconi di Radio vaticana, dopo l’udienza con il papa. E continua: «Questo dialogo non si ferma al rispetto, ma cerca di imparare l’uno dall’altro. Condividiamo molte preoccupazioni spirituali e umane e la difficoltà di trovare la via verso Dio. Vogliamo aiutarci reciprocamente a scalare questa difficile montagna verso di Lui». E ancora: «All’inizio eravamo paurosi, forse solo gentili. Ora siamo ancora molto gentili, ma non abbiamo più paura che conoscere l’altro possa procurarci una ferita».
Queste parole danno subito il tono all’incontro. Non si è ad un semplice briefing (conferenza stampa). È una piccola performance di dialogo. Se ne percepisce il profumo.
Tra i 27 partecipanti 12 sono ebrei e 15 cristiani. Provengono da Usa, Argentina, Uruguay e Italia e da anni sono attori convinti nel dialogo ebraico cristiano. Diversi tra loro collaborano a progetti comuni. È così per il gruppo che da anni lavora attorno alla Fordham University, una delle tre maggiori università di New York, e gli stessi gruppi si ripetono negli altri paesi sudamericani. Tema della riflessione dell’appuntamento a Castel Gandolfo, ospitato nel centro del Movimento dei Focolari è l’«Imitatio Dei» (L’imitazione di Dio). Un concetto che è centrale nelle Sacre Scritture ed è fondamento di una visione dell’uomo essenzialmente relazionale, dove la dimensione spirituale va considerata insieme a quella fisica, sociale e storica.
Mario Borman, presidente della confraternità ebraica per il dialogo interreligioso ha specificato: «L’esperienza di dialogo, instaurata da anni con i Focolari, ha dato spazio alla fiducia. Abbiamo dato un giro di volta e dato vita ad iniziative prima inimmaginabili». L’anno scorso la festività della pasqua ebraica è stata celebrata nell’università cattolica di Buenos Aires. «Docenti e studenti hanno potuto comprendere il vero significato della Festa della liberazione del popolo ebraico». Quest’anno il luogo scelto è stato la facoltà teologica di Buenos Aires: «Una semina tra coloro che potranno diventare trasmettitori di dialogo, sia dalle loro cattedre che dai loro pulpiti».
L’Uruguay è stato uno dei primi Paesi del latinoamerica a lavorare nel dialogo interreligioso. Rafael Hodara, presidente della B’nai B’rith uruguaiana (organizzazione internazionale ebraica nata nel 1843) ha commentato: «Insieme al patrimonio comune ebraico-cristiano, offuscato da 2.000 anni di scontro e di non conoscenza, noi ebrei dobbiamo far conoscere anche il pensiero di Chiara Lubich, la cui sintesi si può racchiudere nella convinzione: "abbiamo un solo Padre Dio che ha molti figli”. Questo ci affratella».
Domanda inevitabile dei giornalisti è stata quella di specificare la svolta qualitativa nel dialogo con i cristiani. «Si tratta di un nuovo passo che ha richiesto a tutti, cristiani ed ebrei, per usare un’immagine, di fare come il nostro padre Abramo: lasciare la nostra terra e avventurarci in un’altra che non è la nostra», spiega Roberto Catalano, membro del Centro per il dialogo interreligioso dei Focolari. «Seppure si sa che nella Terra promessa “scorre latte e miele” di fatto, nell’abbandonare i propri punti di riferimento e il proprio immaginario, si avverte una difficoltà a fidarsi dell’altro e viceversa. Eppure lo si fa e lo si è fatto. Ci si è incontrati e ci si incontra, estremamente arricchiti e capaci di vedere il mondo dalla prospettiva dell’altro».
Resta da capire come avviene praticamente. Silvina Chemen, rabbina di Buenos Aires, precisa: «In un incontro di dialogo si ragiona su un testo. Parla prima l’ebreo e poi il cristiano. Il discorso avviene in parallelo, ma sappiamo che le linee parallele non si toccano. Stavolta invece partiamo dalla consapevolezza che ci vogliamo bene e allora abbiamo incrociato i nostri testi. E così l’ebreo spiega un testo cristiano, ad esempio uno scritto di Chiara Lubich, e il cristiano spiega un testo della mistica ebraica. Mi diceva uno dei cristiani presenti che “Ascoltare il vostro commento è come aver letto, quel brano, con quattro occhi. L’interpretazione finale non è quella che i cristiani o i membri dei Focolari avevano capito prima di questo reciproco scambio. La vostra riflessione allarga la prospettiva, aggiunge comprensione, ci unisce profondamente”. È difficile raccontare ciò che viviamo. Di certo non ci soddisfa il livello accademico, già saturo, un sentiero già battuto e senza le prospettive di novità di cui abbiamo esigenza. Questo livello invece promette nuove comprensioni ed è meraviglioso».
«Dialogare, infatti, significa anzitutto cercare di entrare nelle scarpe dell’altro», afferma il rabbino Abraham Skorka di Buenos Aires, responsabile del seminario rabbinico latinoamericano. «Sviluppa la nostra capacità empatica: metterci al posto dell’altro, sentire, capire, cercare di sapere chi è l’altro. Nell’ebraico biblico il verbo conoscere è a volte sinonimo di amare, così è nei confronti di una donna, così è nei confronti di Dio. Questo il sentiero che genera elementi reali per trasformare la realtà in un futuro migliore». Il rabbino argentino si spinge più in là e insiste: «Il dialogo deve arrivare a far sì che uno possa aprire il proprio cuore all’altro, e farlo pure nella dissidenza, nel non accordo». E ancora: «Si deve arrivare a potersi parlare senza barriere fino al punto in cui ci sarà il silenzio, perchè più in là non riusciamo a dirci o perché ci si è completamente compresi». Questa seconda ipotesi, ha confidato, è l’esperienza fatta con l'allora cardinale Bergoglio, oggi papa Francesco, nella scrittura a quattro mani del libro Sobre el cielo y la tierra (in italiano Il cielo e la terra).
Ad un’ultima domanda della stampa ne è seguita una risposta sorprendente: «Tutti quelli che come i Focolari lavorano nel dialogo mettono, in ultima istanza, le condizioni affinché Dio possa manifestarsi completamente all’umanità. Ci sono due modi di vedere il momento finale della storia. Il primo è che Dio dica: mi sono stancato, andrò io direttamente agli uomini e parlerò loro. Oppure che siano gli uomini a preparare il terreno affinché Dio possa dire "meritano che mi riveli più pienamente". Dobbiamo lavorare per questa seconda opzione. Con l’uso delle armi costruite dall’uomo, infatti, potrebbe accadere che Dio non abbia più a chi mostrarsi».