Dialogando con Stefano Zamagni
Quali punti sono emersi in questi 30 anni di Economia di Comunione (EdC)?
Considerato che Chiara Lubich mai aveva studiato economia, bisogna onestamente riconoscere che il suo intuito e la sua capacità di lettura della realtà hanno anticipato quella che tanti studiosi celebri non erano stati in grado di comprendere fino ad allora. Oggi molte delle sue idee sono condivise anche a livello accademico. Trenta anni fa la gente era convinta che il cosiddetto libero mercato avrebbe risolto tutti i problemi. La sua straordinaria intuizione del ’91 in Brasile è consistita nel far tornare l’economia di mercato nel suo alveo originario. Per comprendere di che si tratta, conviene partire dalla considerazione che due sono i tipi di crisi che, grosso modo, è possibile identificare nella storia delle nostre società: dialettica l’una, entropica l’altra. Dialettica è la crisi che nasce da un conflitto fondamentale che prende corpo entro una determinata società e che contiene, al proprio interno, i germi o le forze del proprio superamento. Esempi storici e famosi di crisi dialettica sono quelli della rivoluzione americana, della rivoluzione francese, della rivoluzione di ottobre in Russia nel 1917. Entropica, invece, è la crisi che tende a far collassare il sistema, per implosione, senza modificarlo. Questo tipo di crisi si sviluppa ogniqualvolta la società perde il senso – cioè, letteralmente, la direzione – del proprio incedere. Anche di tale tipo di crisi la storia ci offre esempi notevoli: la caduta dell’impero romano; la transizione dal feudalesimo alla modernità; il crollo del muro di Berlino e dell’impero sovietico. Perché è importante tale distinzione? Perché sono diverse le strategie di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi e regolamentari – pure necessari –, ma affrontando di petto, risolvendola, la questione del senso. Ecco perché sono indispensabili oggi, come ieri, minoranze profetiche che sappiano indicare alla società la nuova direzione verso cui andare mediante un supplemento di pensiero e soprattutto la testimonianza delle opere. Così è stato quando Benedetto da Norcia, lanciando il suo celebre “ora et labora”, inaugurò la nuova era, quella delle cattedrali. E così è stato quando Francesco d’Assisi, dopo essersi battuto con energia contro la separazione tra laborantes e contemplantes – una separazione a quel tempo dominante –, indicherà nel lavoro per tutti (anche per coloro meno dotati) la via maestra per edificare quel nuovo modello di ordine sociale che nel secolo XV – il secolo dell’Umanesimo civile – diventerà l’economia “civile” di mercato. Ebbene, l’EdC può essere vista come un esempio, bensì limitato ma a forte valenza simbolica, di come sia concretamente possibile, anche nelle condizioni odierne, riprendere la via dell’economia civile di mercato.
In cosa si differenzia, a suo parere, l’EdC dall’economia civile?
Si tratta di piani diversi anche se ovviamente strettamente collegati tra loro. L’EdC è un modello concreto di agire economico, l’economia civile invece è un paradigma teorico, cioè un particolare sguardo sulla realtà economica. Dopo un lungo letargo, durato oltre 150 anni, l’economia civile da ormai un ventennio sta tornando a imporsi all’attenzione degli studiosi e dei policy-maker soprattutto all’estero, più ancora che in Italia. Il paradosso è solo apparente. Il fatto è che noi italiani – come già aveva scritto Giacomo Leopardi – non siamo capaci di coltivare le nostre radici e, soprattutto, non riusciamo a valorizzare, cioè a dare valore, alle nostre figure carismatiche. Antonio Genovesi, il fondatore del paradigma dell’economia civile, nel 1753 ottenne la prima cattedra universitaria al mondo di economia – cattedra denominata di Economia civile. Da quel luogo, il paradigma si diffonde a Milano, a Modena e altrove. Si pensi anche al grande contributo di Giacinto Dragonetti, di Pietro Verri e di tanti altri che quasi mai vengono fatti oggetto di accurato insegnamento nelle nostre università. Io ho studiato a Milano (e poi a Oxford): ma nessuno mi aveva mai parlato di questa scuola di pensiero. Mi imbattei, quasi per caso, nell’opera di Genovesi agli inizi degli anni ’90 e devo dire che il celebre discorso di Chiara in Brasile nel 1991 rappresentò per me la tipica lampadina che si accende all’improvviso.
Non è ragionevole nutrire dei dubbi verso l’EdC?
Sono stato testimone nel 1996 di un vero e proprio attacco critico da parte di docenti universitari di formazione cattolica contro due giovani del Movimento dei Focolari che, in un seminario di economia, avevano presentato le novità dell’EdC, come un modo di fare economia alternativo, ma non antagonista, a quello dominante. Intervenni per difendere quei giovani dai commenti sommari che giudicavano la proposta dell’EdC letteralmente come una “sciocchezza priva di senso”. Feci notare, invece, l’ignoranza di quei professori nei confronti di un pensiero antico e autorevole come quello dell’economia civile.
A proposito di governance dell’impresa non le sembra che, in ambito cattolico, esista una tendenza paternalistica senza una reale partecipazione alla gestione diretta dell’azienda da parte dei lavoratori?
È vero, ma ciò dipende dal tipo di impresa che si adotta. Nel caso dell’impresa cooperativa, la democrazia tra i soci è iscritta nel Dna di una forma di impresa dove il lavoro controlla il capitale. Lo so che nella prassi questo non sempre accade, ma si tratta di un altro discorso. In Italia esiste un vasto e articolato movimento cooperativo che è una forza decisiva di sviluppo per il nostro Paese e che dimostra come una fiorente economia di mercato abbia bisogno della biodiversità economica.
Nelle imprese di tipo capitalistico, invece, non è previsto per statuto alcun tipo di governance democratica, perché tale modello di impresa storicamente nasce per realizzare il controllo del capitale sul lavoro. Chi lavora in tale tipo di impresa non ha diritto di partecipare al processo decisionale che spetta solo agli investitori del capitale, i quali delegano l’esercizio dell’autorità al Consiglio di amministrazione, i cui membri possono anche non essere soci dell’impresa. Bisogna dunque intendere bene il termine partecipazione, oggi inflazionato. Partecipazione democratica vuol dire che chi prende parte al processo decisionale dove poter essere decisivo.
Non esiste anche l’impresa gestita con il sistema duale?
È così. Col passare del tempo, a partire da questa struttura originaria dell’impresa capitalistica, si è arrivati a forme addolcite, per così dire, come avviene in Germania, dove è previsto, in alcune società, la presenza di un numero limitato di rappresentanti di lavoratori nel Consiglio di sorveglianza (con compiti di indirizzo e controllo distinti dal Consiglio di amministrazione, ndr). Ma è un’eccezione che conferma la regola principale. Un’altra forma di partecipazione, ma non democratica, è quella di tante imprese che coinvolgono i loro dipendenti in assemblee o seminari per dare informazioni sulle scelte dell’impresa e ascoltare il loro parere. Consigli che il management è libero di accogliere o meno, senza alcun vincolo. C’è chi ritiene tale modello non sufficiente per promuovere una reale partecipazione e propone di prendere atto che bisogna uscire dal capitalismo. Per andare dove? La pianificazione centralizzata non ha certo dato buona prova di sé, né potrà mai darla.
Quindi non c’è alternativa all’impresa capitalistica?
Non credo alla possibilità di abbattere il capitalismo come la prospettiva rivoluzionaria suggerisce. Credo invece nella possibilità di trasformarlo dall’interno avviando processi tali per cui, con il tempo, il suo modo di operare possa cambiare volto. Un esempio in tal senso sono le società Benefit, riconosciute per legge in Italia nel 2015 sul modello delle Benefit corps, nate negli Usa nel 2010. Sono una grande novità che i giornalisti, per lo più, non sanno cogliere e non mettono in evidenza.
E qual è la novità delle “Benefit corps”?
La società benefit in Italia sono un migliaio. La loro è una struttura ibrida, con uno statuto che prevede di perseguire un duplice fine: il profitto e una finalità di utilità sociale. Non si tratta, si badi, di filantropia di impresa, che è sempre esistita. Rassomigliano piuttosto ai mecenati dell’Umanesimo e del Rinascimento. Rappresentano una sfida per le imprese Edc che devono riuscire a definire in cosa il loro agire si differenzia da quello delle Benefit corporation, tenendo a mente la massima di Malher: «Tradizione è custodire il fuoco, non conservare le ceneri». Nella prospettiva cristiana, la misericordia dice del modo in cui l’amore si deve manifestare – come ha scritto papa Francesco, «Dio ama misericordiando»; esercita cioè la giustizia rendendo giusti coloro che sono perdonati. Lo storiografo romano Gaio Igino, nel Fabulorum Liber, ci ha trasmesso un racconto mitologico che bene fa comprendere il ruolo, per così dire, economico-sociale della misericordia. Nel racconto, Cura dà forma all’essere umano con del fango. Giove, invitato da Cura a infondere lo spirito al suo pezzo di creta, volle imporre il suo nome, ma Terra intervenne reclamando che venisse data a questa creatura il proprio nome, perché aveva dato ad essa parte del proprio corpo. Saturno, eletto a giudice, decise che questa creatura si sarebbe chiamata homo (da humus, fango), che Giove avrebbe avuto lo spirito al momento della morte, mentre Terra ne avrebbe ricevuto il corpo; ma Cura lo avrebbe posseduto per tutta la vita, poiché per prima gli ha dato forma. Cura dà forma al fango conferendogli così dignità umana. È in ciò la missione propria dell’EdC quella di dare “forma” al mercato, umanizzandolo.