Di fragola in fragola
Faceva così caldo quell’anno che tutto sembrava di polvere. Il campo di grano, il tronco dei gelsi, gli attrezzi agricoli, il carretto e anche Garibaldi. Garibaldi era l’asino di Enrico; calmo e sapiente come un asino, ma cocciuto come un mulo. E la polvere che lo ricopriva, in quell’estate così polverosa, con il sudore, diventava uno strato di fango che seccando trasformava Garibaldi in una statua di creta. E come una statua se ne stava immobile all’ombra del fico. Anche le cicale facevano un verso polveroso e quel loro eterno gre-gre sembrava una grattugia che avrebbe finito per sbriciolarle in polvere. E difatti, a sera tacevano: forse si erano sbriciolate. La mattina le cose andavano un po’ meglio. Il bello della campagna, mi avevano spiegato, è proprio questo: che la notte si rinfresca un po’. Non come in città con tutto quel cemento e quel bitume! Quell’anno ero così piccolo, che non ricordo nemmeno chi fosse la ragazza che si occupava di me, ma so per certo che mi portava a spasso la mattina e mi obbligava, il pomeriggio, a fare il pisolino. Eppure, oltre a Garibaldi, al caldo e alle cicale in polvere, una piccola storia di quell’estate mi è rimasta in mente e posso raccontarla. Le cose andarono così. Dopo i campi, oltre il fico dove stava Garibaldi, c’era il ponticello di mattoni che passava sopra il fosso con i gigli gialli e le oche. Delle rane si udiva soltanto il pluff, perché appena ti sentivano arrivare si buttavano in acqua e non riuscivi mai a vederle. Oltre il ponticello si incontrava il cimiterino. Piccolo piccolo, tutto pieno di fiori, o selvatici o di celluloide, e con le tombe tutte vecchissime perché probabilmente, pensavo io, in quel posto lì non moriva più nessuno. E questa era una bella cosa. E poi il cimiterino mi piaceva molto anche perché accanto c’era una grande fontana di pietra, ma veramente grande: con due vasche, una più su e l’altra più bassa. Così se buttavi un legnetto in quella più in alto prima o poi arrivava ad una specie di minuscola cascatella che lo portava a tuffarsi in quella più in basso. Da lì usciva accelerando la corsa a cavallo di un rigagnolo gagliardo che ritornava, indovinate dove? Nel fosso del ponticello. E lì il nostro legnetto si perdeva, dopo aver salutato con qualche giro di danza, tra i gigli gialli, le oche e il pluff delle rane. Non mi stancavo mai di buttare legnetti nella fontana e di seguirne il percorso fino all’addio, ma si stancava la mia tata. Su andiamo, adesso basta, attento che ti bagni! . Bisognava andarsene, facendosi tirare, voltati indietro a vedere ancora quello scintillio tra i ranuncoli e le pietre lisce. Per fortuna, poco più in là la strada incominciava a salire per una bassa collinetta ricoperta da un delizioso boschetto, e nel boschetto c’erano… le fragole! Le fragole più dolci non sono quelle grosse grosse che si vedono nei negozi nel loro bravo cestino che fa tanto prodotto genuino, ma quelle piccole piccole e rosse rosse che si nascondono nei boschi veri. I boschi veri sono quelli scuri e freschi dove il sole riesce ad arrivare a terra soltanto se i faggi sono d’accordo. Allora si formano macchie dorate dove scintillano le mosche verdi, le gocce di rugiada diventano diamanti e le fragoline prendono un profumo e un sapore che non troverete mai più da nessuna parte. Anche perché nel frattempo sarete diventati più grandi, più esigenti e quindi meno felici. Peggio per voi. Ma per fortuna, quell’anno, io ero piccolo e le fragoline erano tutte per me e continuavano a darmi quella meravigliata contentezza che deve aver provato babbo Adamo quando il buon Dio gli disse: Ecco qua, benvenuto nel giardino dell’Eden, passatela bene e mangia tutto quello che vuoi… (la faccenda della mela è un’altra cosa). Meravigliato e contento senza nemmeno dovermi curvare, tanto ero piccolo, me ne andavo di fragola in fragola e mangiavo, mangiavo frugando sotto le foglie e con i ditini che diventavano sempre più rossi. Ogni tanto mi giungeva la voce della mia custode che perdeva il suo tempo seduta su un sasso a leggere qualche giornaletto Non sporcarti! Non mangiarne troppe!. Ma una gioia non è mai completa se non è condivisa; e questa è una cosa che, mi pare, i bambini sanno benissimo anche se non gliela insegna nessuno. Sarebbe stato davvero più bello poter dire a qualcuno: Che buone! Vero che sono buone?. E dato che quella là perdeva il suo tempo con il giornaletto, la prima persona che mi venne in mente, a cui avrei potuto dire: Senti che buone! fu la mia sorellina. Poverina! Lei era più grande: aveva finito la seconda elementare e, mentre io ero nel boschetto a mangiare le fragole, doveva starsene china su un tavolone di castagno nell’ombra della grande cucina a fare i compiti delle vacanze, consolata soltanto di tanto in tanto dal grido del tacchino nell’aia che, dovete ammetterlo, fa sempre ridere un po’. Questo pensavo, in piedi nella macchia di sole con la mia fragolina in mano. E così, invece di ficcarmela in bocca, la lasciai cadere nel taschino della mia camicina bianca, e poi un’altra e un’altra ancora, e ancora… sarà contenta la sorellina e io la guarderò mentre si mangia le fragole che le ho portato, perché mi sono ricordato di lei e le domanderò: Vero che sono buone?. Ora di tornare a casa. La secondina mi dà un’occhiata. Tutto è in ordine; non si vede ancora il disastro in agguato nel taschino della immacolata camicina. Poi c’è qualche legnetto che mi si permette di gettare nella fontana, poi le oche, il pluff delle rane, un saluto a Garibaldi: una volta giunti a casa, chi si ricorda più delle fragole? Il pranzo si svolge senza complicazioni e abbastanza velocemente: un risottino saltato come solo la moglie di Enrico sa fare, un formaggino di quelli che mi vanno a genio e un pesca gialla buona quasi – non vorrei bestemmiare – come le fragole del bosco. E adesso non c’è più scampo: è giunto il tempo del pisolino: cerco, come sempre, di tirare in ballo scuse e motivi per schivarlo, ma non c’è niente da fare: la logica degli adulti è schiacciante, le mie argomentazioni, che mi sembrano così inoppugnabili si infrangono rovinosamente contro un perché sì!. Anche un bambino capisce che non c’è nulla da fare. Non rimane altro che gettarsi sul letto tanto imbronciati quanto rassegnati… a pancia in giù! Ma non è poi così male il pisolino se, dopo qualche considerazione sulla tracotanza degli adulti, la testolina si perde qua e là, il grido del tacchino si fa confuso e indistinto e piombo in un sonno così placido e profondo che non ne emergo neanche quando torna la mamma e corre su per la scala di legno per svegliarmi con il suo allegrissimo bacione. Non mi sono mosso da quando mi sono addormentato; sono ancora a pancia in giù e la mamma è lì che mi mordicchia il culetto e mi spettina tutto; e io, per tutta risposta, non so che emettere un fievole pigolìo, come uno che proprio tutto sveglio non è. Allora la mamma mi prende e mi rigira per darmi il bacione. Per vedere in faccia il suo bambino, per dirmi… Invece lancia un grido terribile e fissa con occhi pieni di terrore e di angoscia una orribile macchia rossa sulla camicina bianca proprio lì dove c’è il cuore… assieme alle fragoline rosse rosse per la sorellina. Svegliato dal grido e tutto spaventato, un po’ glielo racconto e un po’ lo capisce da sé. E allora piange e mi stringe macchiando anche la sua camicetta. E piange e poi ride e di nuovo piange e non sapevo ancora che per la felicità si piangesse.