Di barocco si può morire
Sono tornate in Italia le molte anime del barocco. Voci diverse di una civiltà polifonica. E sono tornate proprio nella città da cui sono partite.A Roma c’è Guercino, artista emiliano molto amato dagli intenditori – primo fra tutti il suo scopritore, sir Denis Mahon – e, fino a poco tempo addietro, poco dal vasto pubblico. Guercino è una sorta di Tasso del colore, tutto emotività, almeno nella parte centrale della produzione, e molto a nervi scoperti (anche se saldamente impaginati). Non per nulla un suo tema ricorrente è l’episodio dalla Gerusalemme Erminia che soccorre Tancredi, teatro affettuoso e tenero, come l’anima tassesca. Artista dell’emozione, Guercino adotta come linguaggio particolare l’amore per l’ombra. Da Caravaggio ha imparato ad esaltare l’oscurità, ma senza violenza (come in Battistello o Preti): anzi, per lui la notte è il regno del mistero, del sentimento ancestrale che si rivela a chi sta desto a scoprirlo; e l’ombra, ricca di sorprese, è sempre dolce e colorata, perché piena di vita. Essa dà risalto alla forma, calore alla cromia, accende le carni e le vesti di una sensibilità trepidante, fa insomma della tela l’equivalente di una ottava poetica o, se si vuole, di un recitativo del Monteverdi. Opere come Il ritorno del figliol prodigo, la Maddalena orante, le variazioni domestiche sulla Madre col bambino ne sono una dimostrazione di altissimo livello. Come anche quel Paesaggio al chiaro di luna con carrozza (Stoccolma), una fantasia già romantica sul senso panico dell’uomo di fronte alla notte, all’infinito che essa porta e sottende. Un pathos, questo di Guercino, che corre lungo la sua carriera – dalle opere monumentali a quelle più intime – ancora attuale, per la sua carica di sincerità e per la misura che contiene, nel non travalicare mai l’onda del sentimento. Talvolta il pathos, nel secolo dello stupore e della fantasia, diventa teatro dell’eccesso. A Genova, in Rubens, maestro della pennellata sciolta, della pastosità del colore, della scenografia fastosa, sembra di assistere ad una ingordigia di spettacolarità. Passato tra Roma, Venezia, Mantova e la città dei Doria, il Fiammingo dilaga con una vivacità esplosiva che ha del maraviglioso, come allora si diceva (si guardi la grande Giunone e Argo del Museo di Colonia). Rubens ha il culto della vita, che esprime nell’accensione dei corpi in mo- ti, colori, sensazioni che prendono di petto l’osservatore. Un’arte, la sua, che sembrerebbe votata all’esteriorità della bella forma – come un certo ideale di bellezza contemporanea – se non fosse che l’anima occhieggia da certi brillii di sguardi, da certi squarci paesistici, che suscitano un rapporto diretto anche con noi, a quattro secoli di distanza. Così che il suo barocco, per quanto ricco di estrosità e di grandeur – diremmo che Guercino interiorizza la vita e Rubens lareclamizza -, manifesta una sincerità di fondo: cioè la convinzione fiduciosa della bontà dell’esistenza, in cui ciascuno può agire da protagonista. Come il pittore, nelle costanti autocitazioni, fa di sé stesso, quasi moderno uomo di spettacolo. Non inganniamoci, tuttavia, su Rubens. Nei suoi Compianti, sa cos’è il dolore. Soltanto, come in un kolossal hollywoodiano – sop- pesando la giusta dose di emotività e di stupore – lo esorcizza con la potenza dell’immaginazione: la vita resta degna di essere comunque vissuta. A Milano, Van Dyck, che parte da Rubens ma finisce per evitarlo, mostra un’ottica diversificata. Con lui il rischio è di fermarsi all’apparenza. Certi ritratti di patrizi genovesi, avvolti in sete gorgiere roboni di cui ancora si sente il fruscio, tanto sono perfetti; certi volti, emanano il fascino di un’umanità superiore, un mondo inamidato che ci osserva da lontano, con sufficiente distacco. Un autentico teatro alla moda, una moderna sfilata di splendidi costumi. Ci vuole coraggio a nascondere così bene – e Van Dyck ci riesce – l’amarezza, la sospensione, la vanità al di sotto della parata, per non deludere il committente. Ma a noi questa galleria colorata dell’autoesaltazione non cela il terrore della morte – così presente nel Seicento – col desiderio di rimanere, di venire ricordati, ossessivo nella cadenza e ripetitività delle pose, nella sontuosità dei costumi, negli sguardi che sono trasparenti (ma non sempre) soltanto nei ritratti meravigliosi dei bambini. Resta nella memoria il cardinal Bentivoglio, sguardo venato di tristezza nello splendore dei bianchi e dei rossi, a dire la malinconia di un’epoca e di una società. E rimane il Compianto – da poco riscoperto – in cui gli esempi di Correggio Tiziano e della scuola italiana vengono ripresi da un pennello partecipe: le lacrime sono vere e bagnano il colore di commozione autentica. Van Dyck dice una sua parola sul sacro, non più pretesto per un’azione teatrale, ma per far uscire allo scoperto – lasciati da parte i ritratti ufficiali – la sua stessa anima. L’ufficialità invece fa una gran parte nelle romane Scuderie del Quirinale. È il culto dell’immagine. Diego Velázquez, signore del pennello, è artista di corte. Si compiace del mondo fastoso in cui vive, del proprio successo personale. Ama l’aristocrazia che celebra, indubbiamente. Ma è un artista, non solo un pittore cortigiano. Soprattutto, è un romanziere dell’anima. Passando in rassegna i ritratti, notiamo un mondo di re, signori, bambini, dame, nani e buffoni guardati senza l’ironia che avrà Goya ma con il rispetto per questa umanità variopinta di cui Diego carpisce, per un istante almeno, l’essenziale. È lo sguardo smarrito dell’Infanta Margherita, dall’abito rosa dipinto come una carezza; la tristezza profonda di Filippo IV, la signorilità del buffon don Antonio, il senso di lontananza di Marianna d’Austria. Diego filtra tutto attraverso il colore, libero e fluente, intriso di luce: tutto è vivo, pieno di calma e di dignità. Altra invece è l’atmosfera che si respira nella Roma papale o nella Francia di Luigi XIV. Un nervosismo percorre l’arte: quasi una volontà di riscatto, per Roma – dopo la crisi protestante – o di ricerca spasmodica di gloria per il re Sole. È il trionfo del barocco solare, vorticistico, immaginoso. Gli danno voce la pittura estroversa – felice in ogni genere – di Luca Giordano, che percorre l’Europa con tele ed affreschi di presa immediata, tanto sono astuti, nel coniugare tradizione e facilità inventiva. E Gianlorenzo Bernini, motore di un linguaggio che diventa internazionale. Il suo amore per il patetico, lo scenografico, il colossale vivifica non solo architetture e sculture, ma piccoli dipinti privati (Il Crocifisso, 1655, o lo Studio per un nudo, 1650) fino all’ultimo lavoro, quel busto busto marmoreo di Cristo, poco scoperto a San Sebastiano in Roma, dove l’artista ottantenne canta ancora il suo teatro degli affetti, nel moto ondoso delle vesti e della chioma. Teatralità, fantasia, emotività, gusto per la libertà espressiva. Forse sono questi gli aspetti per cui oggi mostre sul barocco rendono così efficacemente, non solo a livello economico? Indubbiamente, il Seicento e l’epoca attuale manifestano queste consonanze. Ci si può chiedere se sia opportuno un tale susseguirsi di rassegne, col rischio della sazietà e l’ inevitabile ritorno ad artisti più essenziali. Perché, nella nostra civiltà multimediale appariscente, il barocco può rivestirsi di quello che un tempo era il suo significato negativo: qualcosa di eccessivo, di troppo. Mentre invece siamo di fronte ad una stupenda stagione dell’arte. Che, come ogni cosa che vale, va assaporata nel tempo e con tranquillità. DOVE E QUANDO Velázquez Bernini Luca Giordano. Le corti del barocco. Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 2/5 (catalogoSkira). Van Dyck. Riflessi italiani. Milano, Palazzo Reale, fino al 20/6 (catalogo Skira). Guercino. Poesia e sentimento nella pittura del ‘600. Roma, Stazione Termini, fino al 30/6 (catalogo De Agostini). L’età di Rubens. Dimore, committenti e collezionisti genovesi. Genova, Palazzo Ducale Piano Nobile, fino all’11/7 (catalogo Skira).