Dettagli universali

Il tempo del Covid-19 ci ha costretti a ritrovare il senso del particolare in un’epoca globale. In un’ortensia c’è tutta la natura
Photo by Clay Banks on Unsplash

Tra qualche anno che cosa ci ricorderemo di questa lunga, interminabile stagione del coronavirus? Terremo nella memoria qualche immagine, qualche dettaglio, sia pubblico che privato.

Certo, non dimenticheremo mai la lunga fila di camion militari stracolmi di bare in quel di Bergamo, ma anche il basilico che abbiamo piantato nei vasi in terrazza. Sicuramente terremo a mente la mascherina di Bolsonaro che esce dall’ospedale in cui gli era stato notificato che la malattia da lui a lungo negata era diventata reale nel suo corpo, ma ricorderemo anche la prima volta che siamo usciti in famiglia dopo il lockdown, nel giardinetto di quartiere.

Può darsi che ci resti impressa nella memoria l’immagine della fuga precipitosa di milioni di poveri indiani verso i loro villaggi, quando Modi ha chiuso improvvisamente le grandi città, così come ci ricorderemo della prima partita a Risiko fatta in famiglia durante il confinamento dopo decenni in cui la scatola di quel gioco s’era impolverata in uno scaffale.

Ognuno di noi sarà capace di mescolare ricordi massimi e minimi nella propria memoria stabile, quella che rimane, quella a cui si farà ricorso quando saremo vecchi e racconteremo ai nipotini non più gli anni della guerra, come facevano i nostri genitori, ma quelli della pandemia, perché noi la guerra non l’abbiamo conosciuta.

Marshall McLuhan, nel 1964, cioè 56 anni fa, aveva coniato una fortunatissima espressione, “villaggio globale”, che evidenziava la realtà di un mondo sempre più globale per via delle tecnologie e delle politiche della tecnologia. Dopo 20 anni, nel 1985, in un mondo ormai globalizzato, era emersa una nuova formula che farà fortuna, un’espressione di origine giapponese ma tradotta e popolarizzata da un sociologo britannico, Roland Robertson: “Glocal”. Una parola che era il frutto della risacca dell’ondata globale eccessiva: va bene, siamo nello stesso pianeta rimpicciolito, ma non dimentichiamo che siamo irriducibilmente locali.

Da qui, riprendendo tradizioni politiche contrapposte che si perdono nella notte dei tempi, è cresciuta l’opposizione tra localismi e nazionalismi da una parte e internazionalismi e transnazionalismi dall’altra, con le conseguenze che tutti conosciamo: Trump-Bolsonaro-Johnson-Modi e compagnia bella non sono che frutto della “tendenza globale alla localizzazione”, il che non è una contraddizione. America First, tutto è detto.

Tutto ciò lo leggiamo sui giornali, sui social, alla tv. Le due espressioni erano diventate in qualche modo, perché abusate, qualcosa di esterno alla nostra vita. La pandemia ha riportato questo “villaggio globale” e questa tendenza “glocal” nel nostro quotidiano, aprendoci al mondo intero e alla sua sofferenza, ma nel contempo chiudendoci nel bozzolo. Limitandoci al nostro particolare, il coronavirus ci ha costretti a sbirciare fuori dalla nostra finestra per guardare l’universale.

Ed ecco la rinnovata attenzione al dettaglio: un’ortensia ammirata da vicino ci ha fatto capire quanto sia stupido violentare la natura, che poi tra l’altro si ribella sempre; una tegola che perde ci ha fatto ricordare i danni provocati dalle inondazioni monsoniche; una luce lasciata inutilmente accesa ci ha ricorda gli immani problemi della produzione petrolifera nel mondo e la necessità di energie finalmente rinnovabili… E via dicendo.

Nel dettaglio c’è il mondo, nel particolare l’universale. Di nuovo, come sempre, di più.

 

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