Destra, sinistra e la crisi del Pd

Il crollo elettorale del Partito democratico e la linea politica da trovare oltre le formule da talk show, mentre cresce la Lega di Salvini anche nelle zone storicamente di sinistra. Spunti per un dibattito nell’intervista al politologo Paolo Pombeni
ANSA / LUIGI MISTRULLI

Sull’attuale quadro politico italiano abbiano chiesto il parere del professor Paolo Pombeni, noto studioso e politologo che ha recentemente pubblicato un saggio sulla lettura attuale di quello che è stato il ’68. Dirige anche il  vivace sito di approfondimento “Mente politica”. Per la sua autorevolezza, Pombeni è stato chiamato dalla Fondazione trentina Alcide De Gasperi, assieme ad Angelo Panebianco, a tenere la prossima Lectio degasperiana che ogni anno, ad agosto, si tiene a Pieve Tesino nei giorni dell’anniversario della scomparsa dello statista democristiano.

Il crollo del Partito democratico sembra perdurare dal 4 marzo con la perdita di città simbolo della sinistra, eppure pare che non si sia aperta una fase di confronto aperto sulle cause di una tale deriva. Siamo vicini al democrak?
È presto per proclamare una fine così traumatica. Certamente è necessario che il Pd si interroghi non tanto sulle cause del crollo del suo consenso (su quella strada si finisce solo nelle recriminazioni reciproche e alla fine a concludere che la colpa è sempre del diavolo), quanto su quale progetto intende promuovere per rimettere in sesto questo Paese. In fondo il successo dei “nuovi” vincitori dipende dalla loro abilità nel convincere la gente che si potrebbe uscire dalla crisi attuale: basterebbe solo cambiare radicalmente la classe politica e prendere di petto le difficoltà del momento (immigrazione, precarietà sul lavoro, welfare che non funziona ed alta tassazione, ecc.). Il Pd dovrebbe mettere fra parentesi i suoi numerosi cacicchi e personaggi da talk show per un bagno di umiltà nel creare una analisi “spregiudicata” sulla fase attuale (dunque via le scempiaggini su cosa è e cosa non è “di sinistra”) e nel proporre una combinazione fra prospettive di soluzione ragionata e capacità di individuare una classe politica in grado di gestirle.

La spinta ad andare “oltre il Pd” apre a ipotesi di modelli alla Macron. Le sembra una strada percorribile in Italia?
Siamo sempre nel campo delle prospettive da talk show. Per ora l’ipotesi di andare oltre il Pd significa cercare l’ennesima ammucchiata di sigle e siglette che non hanno altro problema che sistemare il loro personale politico. Sappiamo già come va a finire. Ad attirare consenso sono le proposte forti, non le etichette. Se il Pd sarà in grado di presentarsi come il motore credibile di una riscossa del Paese facilmente si aggregheranno ad esso le forze vive che vogliono questa riscossa. Certo il Pd dovrà contemporaneamente mostrare che è disposto ad essere un canale attraverso cui queste forze possono cooperare e non un assemblaggio di gigli magici e di fazioni.

La legge elettorale Rosato doveva premiare una sorta di accordo implicito tra dem e forzisti, ma i risultati sono stati altri e divergenti. Resterà in piedi il Rosatellum o diventerà necessario cambiare sistema? Cosa teme dal punto di vista della tenuta democratica?
La legge elettorato Rosato è stata un pasticcio frutto della presunzione dei politici di professione che credono sempre di essere i più furbi nel manipolare la realtà. Era inevitabile che la realtà si vendicasse. Il Rosatellum è distorsivo della volontà degli elettori e va necessariamente riformato, optando per un sistema che non pasticci i voti alle persone con i voti alle liste. Si può risolvere la cosa in vari modi, ma va risolta. Dal punto di vista della tenuta democratica il problema va oltre la questione della legge elettorale: bisogna sconfiggere il populismo, che si basa sul tripudio degli slogan e della manipolazione comunicativa, tornando a immettere nel Paese una cultura politica fondata sulla educazione alla ragionevolezza e al realismo non banale. Purtroppo per giungere a capovolgere gli equilibri attuali ci vorrà molto tempo.

Si dice che non esistono più destra e sinistra, ma anche nei pentastellati sembra che emergano due linee politiche distinte. Quale è la caratteristica di una scelta di sinistra? Cosa è oggi il Pd? Quale cultura sta prevalendo al suo interno?
Se si volesse essere tecnici andrebbe detto che la differenza fra destra e sinistra consiste in questo: la destra è convinta dell’assioma “ciascuno per sé e Dio per tutti” (per cui possono esistere in essa anche frange “compassionevoli”), mentre la sinistra è convinta che non c’è salvezza fuori dal lavoro di costruzione di una solidarietà comunitaria. La solidarietà, però, non è coincidente con l’assistenzialismo, ma punta su una volontaria sottomissione di tutti al dovere di costruire un “destino comune” che va individuato. Oggi più o meno tutti, Pd incluso, puntano sull’idea che si possa garantire la felicità in senso imprecisato a tutti. Questo è fuorviante e non consente la creazione dell’aggregazione, perché le felicità individuali illimitate non riescono a convivere e in sé sono confliggenti.

Che spazio hanno i cattolici all’interno del Pd? Graziano Del Rio potrebbe essere un punto di riferimento in tal senso?
I cattolici avrebbero un grande spazio nella costruzione di questi orizzonti di aggregazione, perché la loro cultura ha un approccio realistico all’uomo con i suoi limiti e con le sue potenzialità, se solo accetta di “rigenerarsi”. Hanno una storia che li ha visti molto sbagliare e dunque potrebbero portare un vaccino contro le utopie. Hanno infine un radicamento comunitario che in circostanze come quelle attuali può aiutare molto a rinnovare l’approccio alla crisi della polis. Certo, al momento i cattolici non hanno uno spazio molto visibile nel Pd, ma questo è un bene: i cattolici devono essere come il lievito, che non si vede nell’impasto, ma senza il quale l’impasto non cresce. Su Del Rio non saprei dire. Come ministro è stato bravo, anche quando era sottosegretario con Renzi ha lavorato molto bene. Ultimamente, però, mi pare un po’ sottotono e soprattutto non vedo attorno a lui una squadra vivace su cui possa contare per un ruolo più incisivo.

A suo giudizio, cosa rappresenta la Lega di Salvini? Ha legami storici con culture politiche del passato?
Salvini rappresenta la demagogia nel senso classico del termine: una notevolissima capacità di intuire le domande profonde che si fa una quota molto ampia della gente e di offrire risposte semplificatrici, ma in prima istanza efficaci, almeno all’apparenza. I suoi legami storici sono con la fortissima tradizione dell’antipolitica popolaresca, quella del “piove governo ladro” (che adesso è diventata “pioveva quando c’era il precedente governo ladro”), anche se la cosa non è più di tanto frutto di consapevolezza. È la tradizione della politica del “Bar Sport”, dove il bar è ormai diventato un locale digitale in televisione o sul web. In questo i grillini gli fanno buona compagnia. Non bisogna però confondere la Lega con Salvini: quel partito ha anche una classe dirigente più capace, maturata nei territori, per quanto costretta a convivere con i seguaci del “bullismo” del nuovo segretario. Vedremo se ci sarà una riscossa di quella componente quando verranno al pettini i limiti di Salvini.

Eppure attualmente Salvini sembra crescere nei consensi attirando anche i delusi del Pd, come ci dicono gli esempi in Toscana, a partire da Pisa…
Non vedo perché ci si fa meraviglia della trasmigrazione di voti Pd alla Lega. Tradizionalmente la sinistra è stata anche il collettore dei voti degli “arrabbiati”, di quelli che volevano rovesciare il tavolo per mettere a posto le cose, di quelli che erano “contro il sistema”. Sono componenti che oggi trovano quei sentimenti di politica muscolar-popolare incarnati meglio da Salvini, che li magnifica ogni giorno in TV e sugli altri media. Probabilmente si tratta di un elettorato più anziano, perché i giovani di quelle correnti guardano piuttosto ad M5S, che però poi si allea con la Lega e il cerchio si chiude.

 

 

 

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