Il destino del popolo ebraico

Il cimitero con la stella di Davide di Beirut “scende in strada” per il crollo d’un muro di sostegno. Una minuscola metafora di un mondo in perenne precarietà
AP Photo/Hassan Ammar

Sono appena 29 gli ebrei rimasti nella città di Beirut, sapendo che la frontiera tra il Paese dei cedri e lo Stato di Israele è la più blindata al mondo: nessuno può passarvi, e migliaia di soldati della Finul, la forza d’interposizione Onu voluta tra gli altri da Romano Prodi, percorre la zona di confine con regolarità ferrea per evitare che il minimo incidente scoppi tra i soldati di Gerusalemme e i miliziani di Hezbollah che controllano la zona. Ma la comunità ebraica a Beirut non era di poco conto, se il cimitero, che mi è dato di visitare, conta la bellezza 3.407 tombe.

AP Photo/Hassan Ammar
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«La comunità ebraica in Libano ha reagito immediatamente. Ci vorranno tre settimane per ricostruire il muro di sostegno, stabilizzare la terra che è diventata più libera e sostituire le tombe crollate», ha detto Nagi Zeidan, uno specialista, ad un quotidiano locale. L’ultima sepoltura è avvenuta nel 2014, senza la benedizione di un rabbi, visto che in precedenza, fino alla guerra di Siria del 2011, a recitare le preghiere rituali era il rabbino di Aleppo, che ora si è rifugiato in Canada.

 

La storia della comunità ebraica di Beirut e del Libano è stata fiorente fino agli anni ’50: la capitale libanese comprendeva migliaia di ebrei dalla Siria e dall’Iraq, che si erano stabiliti a Wadi Abu Jmil, dove viveva gran parte della comunità ebraica in Libano. In effetti, Beirut e il Libano hanno sempre attratto le minoranze perseguitate. Ma la presenza di ebrei in Libano risale a migliaia di anni: le prime documentazioni risalgono addirittura al 74 a.C., quando un’iscrizione invitava a pagare le tasse che dovevano all’imperatore Cesare Augusto.

Nel censimento del 1932, Beirut aveva 235 famiglie ebree. Una cifra che era cresciuta notevolmente negli anni ed è poi improvvisamente calata nel 1967, con la Guerra dei sei giorni, poi di nuovo dopo il 1975: gli ebrei del Libano hanno preferito, per motivi di sicurezza, andare a stabilirsi in Israele, in Francia negli Stati Uniti, in Canada e in America Latina. La prima sepoltura nel cimitero attuale sulla rue de Damas (che durante la guerra è stata la linea di frontiera tra la zona musulmana di Beirut ovest e quella cristiana di Beirut est) avvenne nel 1828.

AP Photo/Hassan Ammar
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Sotto la pioggia battente alla rue de Damas, leggo un epitaffio sul marciapiede, quello di una donna, Lucie, figlia di Sasson Saal, morta il 19 luglio 1943. Il guardiano del cimitero capisce che sono giornalista, ma anche che non sono arabo e mi guida allora nella visita al cimitero. E mi fa ricordare analoghi luoghi, come quello dell’Europa dell’Est, in cui l’esistenza degli ebrei fu precaria nell’epoca staliniana, costringendo milioni di fedeli della religione di Davide ad emigrare.

Lo stesso destino occorso più tardi agli ebrei di Beirut, che per le guerre succedutesi dal 1967 nella zona, hanno conosciuto progressivamente il sospetto nei loro confronti, quindi l’aperta ostilità, poi le minacce e la persecuzione, dovendo per forza di cose scappare altrove. Tranne i 29 superstiti che, più o meno nascosti nella folla, continuano ad essere fedeli cittadini libanesi.

Fa impressione visitare il cimitero che, come quelli sparsi in tutta Europa, mantiene il fascino di un luogo che è curato e nel contempo trascurato, come spesso accade con la vita e la morte: le tombe giacciono al suolo, rigorosamente al suolo, senza vero allineamento, perché la tradizione vuole che non si modifichino le inclinazioni o le distruzioni provocate dal tempo sovrano, dalle radici, dalle piogge… Così le tombe restano a ricordare che dopo la morte tutti siamo uguali, ma conserviamo le nostre specificità personali.

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