Depressione
Cosa fare? I vecchi trionfalismi biologici lasciano spazio a nuovi approcci integrati. Vicinanza benevola compresa.
Conoscete una persona da anni. È un’amica che avete sempre apprezzato per i suoi talenti. È gioiosa, piena di iniziative e progetti. Ed ecco che d’improvviso diviene irriconoscibile. È di umore triste, vede nero, resta chiusa in sé stessa; piange spesso e facilmente si accusa di cose di cui non è per niente responsabile.
Ciò che prima le faceva piacere adesso le sembra senza interesse. Perde peso, dorme male, con un sonno pieno di incubi. Chi le sta intorno non sa cosa fare. È vero, vive una situazione difficile al lavoro, con molti stress – le esigenze di rendimento sono pressanti e la crisi economica contiene la minaccia di licenziamenti –, per cui in un primo tempo trovate la sua reazione normale.
Ma la situazione perdura e dopo un mese non vedete ancora alcun segno di miglioramento. Decidete allora di accompagnarla dal medico e la diagnosi piomba implacabile: depressione. Il medico le prescrive dei farmaci. Vi domandate: cosa fare, cosa consigliare, cosa le farebbe bene, quali sono le cause di questo strano male?
Novità
In questi ultimi anni, notevoli passi avanti sono stati fatti nel campo della ricerca su questa patologia. Oggi si sa che è una vera malattia del cervello e delle ghiandole endocrine, senza nulla di immaginario. Dosaggi del sangue hanno potuto dimostrare che questi pazienti presentano anomalie nella regolazione degli ormoni dello stress.
Inoltre, grazie alle moderne tecniche di neuroimaging, che permettono di visualizzare la morfologia e l’attività del cervello di un soggetto sveglio, si è potuto dimostrare che questi pazienti presentano anomalie cerebrali, quali una diminuzione di volume di certe regioni – per esempio l’ippocampo –, un’alterazione nel funzionamento di altre, come il nucleus accumbens coinvolto nella percezione degli stati piacevoli, o un aumento come per l’amigdala, coinvolta nella reattività allo stress, l’irritabilità e l’ansietà.
I trattamenti antidepressivi controbilanciano alcuni di questi deficit, permettendo il ritorno ad un funzionamento normale del cervello e delle ghiandole endocrine.
Terapie
Ciò significa che questa patologia è puramente biologica, e che è sufficiente attendere che i farmaci facciano il loro effetto? La risposta non è così semplice. Ricercatori finlandesi sostengono che i cambiamenti cerebrali rientrano nell’ambito delle possibilità, cioè mettono il cervello in una condizione – tecnicamente chiamata “plasticità neuronale” – che permette al soggetto di essere più recettivo alle influenze del cambiamento.
Se questa ipotesi è corretta, significa che la terapia farmacologica non può avere effetto se non accompagnata da altri approcci, oppure che il suo effetto non è ottimale se non associato ad altre terapie. Ed evidenze scientifiche sostengono questo punto.
Per esempio, è stato dimostrato che l’attività fisica stimola la nascita di nuovi neuroni – un processo chiamato neurogenesi, poiché si sa da una quindicina di anni che nuovi neuroni nascono ogni giorno, anche nel cervello di soggetti adulti – in una regione del cervello, l’ippocampo, fortemente deteriorata negli stati depressivi. Questo aumento è legato al miglioramento della circolazione sanguigna indotta dallo sport. I farmaci antidepressivi agiscono inducendo lo stesso effetto, tanto che i due processi possono sommarsi.
Altro esempio: le terapie cognitive e comportamentali, praticate dagli psicologi, producono degli effetti cerebrali identici a quelli degli antidepressivi chimici. Meglio ancora: lavori scientifici recenti hanno rivelato che gli effetti di queste terapie cognitive e comportamentali, così come le terapie basate sulla regolazione emozionale, esercitano un’azione sinergica su quella dei farmaci antidepressivi; ciò significa che la combinazione delle due ha effetti molto superiori alla somma.
E questo è stato dimostrato non soltanto a livello clinico (cioè a livello di miglioramento dei sintomi), ma anche a livello dei marcatori cerebrali di questi sintomi, poiché grazie a queste combinazioni sono migliorate anche le alterazioni biologiche.
Ascolto
Che fare, dunque, davanti a una persona depressa? Certo, bisogna invitarla a farsi visitare da un medico e intraprendere una terapia curativa, perché ciò permetterà un miglioramento diretto del suo stato. Ma bisogna anche invitarla ad uscire e camminare, ascoltarla, consigliarle di andare da uno psicoterapeuta.
Come si vede, la psicobiologia oggi è lontana da una concezione riduzionista, monolitica, in cui tutto viene dal cervello. Negli studi più recenti, e impiegando le tecniche più aggiornate, si evolve poco a poco verso una concezione meno trionfalistica, lasciando posto ad altri approcci.
Lo stesso ragionamento vale per quanto concerne le cause della malattia. Alcuni, infatti, hanno sostenuto una spiegazione puramente genetica: tale gene predisporrebbe alla malattia, con un fenomeno tutto o niente. Oggi si sa che le varianti di certi geni contribuiscono in effetti alla manifestazione della patologia, conferendo una sensibilità particolare a certi tipi di cambiamenti, come quelli stressanti.
In assenza di stress, però, la persona non diventa depressa, poiché la malattia appare solo se le varianti genetiche di suscettibilità sono combinate ad altri fattori e cambiamenti particolari. Ci si allontana, quindi, dalle spiegazioni puramente genetiche in cui una sola causa, biologica, spiegherebbe tutto.
Quali conclusioni trarre da queste osservazioni? Allo stesso tempo teoriche e pratiche. Teoriche, perché mostrano che soltanto le spiegazioni includenti diversi approcci, provenienti da un dialogo tra diverse discipline (in questo caso la psicologia, la psichiatria, l’endocrinologia e le neuroscienze) permettono di accedere a una visione pertinente di questa patologia. Pratiche, perché questi risultati ci mostrano anche quanto tanti sostenevano da molto tempo: le persone depresse hanno bisogno di una vicinanza benevola, che le stimoli e le inciti a riprendere quota.