Depressione giovanile: un’epidemia

Secondo un sondaggio dell’autorevole agenzia americana Gallup, circa tre milioni di giovani americani sono a rischio di suicidio. La cosa è segnalata anche da alcuni nostri lettori. Subito viene spontaneo chiedersi come sia possibile che in un paese ricco e potente con tante opportunità per i propri giovani, si manifesti un paradosso come quello di una epidemia depressiva estesa e preoccupante proprio in una fascia di età comunemente considerata bella e spensierata. Mi sono allora ricordato di uno psicologo americano, Martin Seligman, che già qualche anno fa aveva denunciato il rischio di una epidemia del genere, che avrebbe, a suo avviso, ben tre cause psicologiche. La prima nello squilibrio del balance I and We (bilanciamento io e noi), la seconda nella fioritura del self-esteem movement (movimento d’autostima), e la terza nella diffusione della ideology of victimology (ideologia della vittimologia). Ma vediamo più da vicino queste tre cause. La prima sottolinea una enorme incapacità tra i giovani americani di vivere realtà comunitarie. Tutti sanno quanto l’America sia una nazione individualista, dove il successo professionale e la riuscita sociale sono importantissimi, al punto che avviene una ipertrofia dell’Io, proprio perchéimpregnato della “cultura del grande io” (big I): in base ad essa, le mie vittorie e i miei fallimenti sono di una importanza monumentale, e tutto questo a scapito del rapporto con gli altri. Si attua così uno sbilanciamento dell’equilibrio fra io e noi a sfavore purtroppo di quest’ultimo; ne segue un deprezzamento del senso comunitario della vita, sbilanciamento che in parte viene compensato con il fenomeno del patriottismo americano molto diffuso e dell’attaccamento alla bandiera a stelle e strisce, come abbiamo visto specialmente dopo l’attacco terroristico alle Torri gemelle. La seconda causa invece fa capo al movimento dell’autostima che, nato nel 1960 in California, sta purtroppo diffondendosi in tutto il mondo. È un movimento che ci dice che tra i principali doveri di un educatore, di un genitore o di un terapista c’è quello di sostenere fortemente l’autostima. Io non sono contrario all’autostima o alla fiducia in sé stessi; il problema è che c’è una autostima fondata e un’altra non giustificabile. La prima ha a che fare con l’apprendimento e l’esercizio di qualità umane che permettano di andare d’accordo con altre persone, ad esempio sul lavoro, a scuola o nello sport, ecc. L’autostima infondata o arbitraria, invece, porta i ragazzini a fare propri slogan tipo I am special (io sono straordinario) e su di esso si basa il movimento dell’autostima, che nel frattempo è cresciuto. Ne sono un segno l’eliminazione, nelle scuole, dei test di intelligenza e dei voti, per paura che i ragazzini con valori o voti bassi possano sentirsi a disagio. Questo movimento ha anche fatto della parola “competizione” una brutta parola tra i giovani; non solo: li ha anche indotti a non prendere in degna considerazione il lavoro duro, a scansare il lavoro pesante. È questo un movimento che paradossalmente ha portato a creare nei bambini un’alta autostima ma, io credo, enormemente fragile e senza fondamento. La terza causa è la vittimologia – e la cosa è davvero singolare negli Usa perché questa nazione, che si vanta di essere a responsabilità individuale, è diventata per qualche ragione anche una nazione di vittime. Tutto ebbe inizio nel 1870 a Chicago, dove, nella Haymarket Square, avvenne una sommossa in cui persero la vita sette poliziotti uccisi da immigrati che protestavano per le loro condizioni di lavoro. Per l’occasione un gruppo di teologi protestanti liberali si riunì e sostenne che gli omicidi accaduti derivavano non tanto dal fatto che gli immigrati erano cattivi, oppure dal loro deficit morale, ma dall’essere vittime della deprivazione, della ignoranza e della povertà. Questi teologi diedero vita alla fondazione di una “scienza sociale”, la cui missione sarebbe stata quella di spiegare eventi come questo, causati dall’ambiente non favorevole piuttosto che dalle responsabilità personali. Dopo Haymarket Square, però, la vittimologia è stata alla base di due altri eventi che di per sé invece sono molto positivi. Prima del 1930, l’alcolista aveva l’etichetta di “cattivo”, “ca- ratteraccio” oppure di “peccatore”; con la nascita in quegli anni degli Alcolisti Anonimi, invece, l’etichetta cambiò in “tu hai un disagio” o meglio “tu sei vittima di un disagio”, aprendo la possibilità di un cambiamento in cui i disturbi potevano essere curati. Ma soprattutto negli anni Cinquanta il “movimento dei diritti civili” usò la vittimologia in una nobile causa. Secondo statistiche dell’epoca, pare che gli americani africani si comportassero abbastanza male: per gli americani bianchi ciò era da addebitare al fatto che “il negro era stupido, pigro e immorale”; ma nel 1953 la Corte Suprema degli Usa parlò invece di “opportunità non uguali e discriminazione”, e da quel momento il fallimento dei negri venne visto non più in termini dispregiativi ma di “io sono stato una vittima”. Ma ora questa ideologia è senza controllo, ed è divenuto del tutto normale dare la colpa delle proprie difficoltà al fatto di essere vittima di qualcosa, di qualcuno, ecc. fino all’assurdo, per esempio, che dei figli assassinino i propri genitori e siano quasi scusati sulla base di dichiarati abusi sessuali nell’infanzia. Cerchiamo di capire meglio i vantaggi e i costi della vittimologia. Il primo vantaggio è quello di prendere le difese degli oppressi; il secondo è che quando puoi colpevolizzare qualcosa fuori di te (nella malattia, nella classe dirigente, nella tua razza, nel tuo sesso, ecc.) per i tuoi fallimenti, allora ti senti meglio e la tua autostima sale; il terzo vantaggio è che nell’essere una vittima, più che fallimento e disprezzo, si ottiene compassione e appoggio. Invece il primo costo della vittimologia è nella sua natura temporanea: facendo stare bene nel breve periodo, impedisce infatti di scoprire le cause reali connesse nel lungo periodo. Secondariamente, non di rado essa è sbagliata, nel senso che qualche volta il problema sei tu, nelle cose cose che hai fatto, nelle decisioni sbagliate che hai preso, oppure nel cattivo carattere che puoi avere. Ancora, essa erode la responsabilità e induce una sorta di “impotenza psichica appresa”: i giovani credono di essere vittime, si convincono che eventi importanti siano incontrollabili e pensano quindi di potersi permettere di esibire la loro passività e tristezza. L’ultimo costo della vittimologia è che deforma la natura dell’eroismo, come fu esemplificato nel 1997 dallo stupefacente contrasto fra la quantità di lutto dopo la morte della principessa Diana e quello, ben inferiore, di Madre Teresa. E secondo attenti osservatori pare che il funerale di Diana come partecipazione di dolore sia stato superiore anche ai funerali di John Fitzgerald Kennedy e di Marilyn Monroe, un vero e proprio evento nella storia umana. Ma perché Diana era così popolare, soprattutto fra i giovani? Io penso che sia stata la principessa delle vittime. Diana era bulimica, anoressica, ha tentato più volte il suicidio, lei stessa si autodefinì una vittima, si colpevolizzò di errori altrui. Era oppressa dalla famiglia reale, considerata dal mondo intero non come la madre degli eredi al trono britannico, ma come la vittima dell’infedeltà e dell’indifferenza del marito principe Carlo. Era vista come un’eroina, e di solito gli eroi sono persone che compiono atti coraggiosi e realizzano cose straordinarie; Diana non fece nulla di tutto ciò, eppure tantissimi giovani al suo funerale si sono identificati con lei in un mondo dove si apprezza l’ideologia della vittimologia: era la loro principessa e se la sono meritata. Che cosa si può fare? Una prolungata esperienza professionale mi conferma che tutte e tre le cause dell’epidemia depressiva diffusa tra i giovani d’oggi sono affrontabili e risolvibili facendo appello alle virtù o alle forze umane positive. Non credo che la scienza della psicologia, da sola, possa correggere lo squilibrio del bilanciamento fra Io e Noi; lo possono fare, invece, la religione e il risveglio spirituale, ad esempio nel costruire una comunità cominciando dalle cose più piccole come quella, spesso giudicata insignificante, del dedicare più tempo per i figli da parte dei genitori. Penso poi che si possa, anzi si debba, fare qualcosa anche per smetterla con il mito dell’autostima a tutti i costi. Insegnare per esempio la distinzione fra autostima buona e cattiva, oppure ricordarsi che come si imparano le capacità di fare bene a scuola, al lavoro, nello sport, ecc., così è possibile imparare le capacità per fare bene con altre persone, producendo con ciò ottimismo. Infine, per quanto riguarda la vittimologia, è arrivato il momento di passare da una psicologia tutta concentrata a fornire all’individuo, di fronte ad uno stimolo, solo risposte passive, ad una psicologia che invece porti a risposte più attive, con assunzione di responsabilità. Infatti una efficace prevenzione della malattia mentale non potrà venire da un modello di disturbo della condizione umana, dove si punta tutto sul cambiamento chimico del cervello attraverso gli psicofarmaci, oppure sul riparare i danni psichici già fatti nell’infanzia con la sola psicoterapia. Una prevenzione efficace, invece, verrà soltanto dalla progettazione e costruzione di quelle forze umane che sono, a mio avviso, la grande diga difensiva contro tutti i disturbi mentali: l’ottimismo, la speranza, il coraggio, l’umiltà, la bontà, la gentilezza, la pazienza, la fede, l’altruismo, l’onestà, la generosità.

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