Dentro una scintilla
Una fresca mattina di primavera entro nell’atelier di Hung a Loppiano (Firenze). Mi aveva permesso di precederlo di qualche minuto. Mi siedo su una panca senza accendere alcuna luce e subito mi sento osservato: sono le sue opere che mi interpellano nella penombra. Rimango muto fino a quando arriva Hung. “Le linee scolpiscono l’aria e i volumi aprono orizzonti; il vuoto rincorre il pieno”, azzardo. “Di profilo, queste sculture sembrano degli schizzi, non ti pare? Prova a pensare che ogni scultura ha dentro di sé un disegno originario; è un raffronto con la mia convinzione che ogni essere umano è chiamato a realizzare il disegno- progetto che è in lui. È proprio nel cercare l’equilibrio fra il vuoto e il pieno che si intravede meglio questo disegno”. “Ti ho lasciato ad una certa tappa del tuo viaggio umano e artistico; so che da allora hai consumato diverse scarpe”. “Ho vissuto anni di sospensione – come ben sai – non estrinsecamente attivi nell’arte, ma ugualmente fondamentali per la mia formazione, in Filippine e in Corea. Chiamiamoli il mio periodo di dottorato nell’arte, o meglio, la mia esperienza di sopravvivenza nel deserto, un ambiente dove l’unica cosa indispensabile è l’acqua. Ebbene, quella fonte d’acqua, la chiamata al Bello, l’ho sempre trovata nel mio cuore. Molte volte, anche facendo lavori strettamente parlando non artistici, cercavo di eseguirli con la stessa creatività e perfezione che mi imponevo quando ballavo e cantavo col gruppo musicale Gen Rosso, davanti a un pubblico critico ed esigente. Per anni ho lavorato come dattilografo e impaginatore per il giornale filippino New City. Mentre mi concentravo nel tirare le righe da una parte all’altra delle pagine millimetrate, spesso evocavo le traiettorie percorse dal ballerino sul palcoscenico: attimi in cui deve dare tutto di sé. Può cambiare il contesto in cui mi trovo, ma ciò che ho sottomano può sempre diventare un’occasione di creatività e il pubblico esigente è sempre lì davanti a me”. Mi rivolgo verso le sculture di ferro che mi osservano e chiedo in che modo siano nate. “Non è stata mia intenzione quella di cercare una tecnica azzardata per distinguermi dagli altri. Partendo dalle Filippine per trasferirmi in Svizzera, ho pensato di esordire con una serie di sculture con tema la danza. Mi son messo ad imparare le tecniche per saldare il ferro, per costruire delle forme anche slanciate, intese originariamente come armature da rivestire con gesso o creta. Ma in quegli intrecci ho cominciato a intravedere immagini di vere sculture; così le ho elaborate fino al punto di terminarle, utilizzando quasi esclusivamente il ferro e il fuoco”. “Cos’hai visto tra la folla di materie e attrezzi?”. “Ho trovato una sintonia fra questa tecnica, indubbiamente attuale, e la mia radice culturale grafica. L’arte cinese è principalmente un’arte dalle linee dinamiche; basti pensare alla calligrafia. Oggi le mie “pennellate” sono verghe di ferro e gocce di materia fusa”. “Mi hai incuriosito quando, giorni fa, parlandomi del tuo viaggio interiore, hai accennato alla Via della Seta”. “Il percorso che collega la Cina con l’Italia! L’emblema del dialogo fra oriente e occidente! Un tema ricorrente, come qui in Superstite, che mi interpella direttamente ogni giorno nel suo significato di un mondo unito”. Lo sguardo silenzioso di Hung mi riporta indietro nel tempo, alle nostre prove di avvicinamento culturale “L’esperienza del dialogare con la materia da scolpire mi insegna anche l’arte del dialogo con le persone. Rapportarsi, per me, è sinonimo di entrare nel territorio dell’altro e viceversa: bisogna togliersi le scarpe, tagliare le proprie radici, prima di entrare in quel luogo sacro che è l’anima dell’altro. Un amico artista, il mitico Roberto Cipollone, per il quale nutro una grande stima, un giorno è venuto a visitarmi durante il lavoro. Dalla porta del mio atelier ha intravisto una mia ultima opera e si è fermato ad ammirarla, ma senza entrare. Quando poi mi sono affacciato per salutarlo, Roberto si è fatto avanti e si è congratulato con me: era talmente felice della mia nuova vena trovata – gioiva infatti più lui di me – che si è messo letteralmente a ballare davanti a quella mia scultura. Non sono mancate anche osservazioni e critiche (del resto sempre le esigevamo l’uno dall’altro), ma è stato il suo “annuncio rispettoso” a conquistarmi. È una persona che sa entrare nel mio atelier in punta di piedi”. Mi metto a fissare Agata, una donna in carrozzina, una presenza importante che mi fa uscire l’espressione: “Regina sul trono”. “Lo stile figurativo che ho scelto mi facilita nel narrare esperienze vissute. Agata e Il figliol prodigo: opere ispirate da veri eroi incontrati non invano (una casalinga e un drogato che avevo ospitato, morto poi di Aids). Il superstite: un altro scorcio del vissuto, la mia preghiera per la pace dopo l’11 settembre”. “Tormenti, bruttezze e morti?”. “Certamente, ma con la risurrezione”. Mi avvicino al cannello ossidrico, lo impugno e con esso sfioro la vena gonfia della mano destra del Violinista. “Tremila gradi di dolcezza”, interpello Hung. “Qui subentra la legge del fuoco. La natura trasforma in modo lento e progressivo mentre la fiamma liquefa il ferro in pochissimi attimi drammatici. Ma poi il ferro riprende alla svelta la sua consistenza in una nuova forma. Un amico ha coniato per me il termine MetaLmorphosis “. “Un gioco fra te, la fiamma e la materia; un gioco che brucia sulla pelle e, forse, anche dentro”, indago. Si lascia provocare e mi parla di battaglie: “Immaginati una battaglia, delle fiamme, quelle dell’amore, per dire, contro le fiamme dell’odio o della vendetta che puoi anche sentire nascere dentro di te. Un fuoco più forte che passa, consuma tutto e lascia in piedi solo la verità è un richiamo che, attraverso i miei occhiali scuri da saldatore, m’interpella costantemente durante le ore di lavoro in solitudine”. Si è fatto tardi. Uscendo dall’atelier di Hung non oso nemmeno sfiorare una scultura, ma le accarezzo ad una ad una con uno sguardo personale per ciascuna. Ormai sulla porta, faccio l’ultima domanda: “A quale stile espressivo appartiene la vita che racconti con le tue opere?”. “Lascerei agli storici e ai critici d’arte il loro compito. Recentemente uno studioso amico mi ha spiegato in termini letterari la poetica che lui trova nelle mie sculture. In quell’ascolto mi sembrava si verificasse un certo sogno: vedere un giorno che letterati, artisti, filosofi e così via non vivano più solo nella loro solitudine ma anche in un dialogo reciproco l’uno con l’altro manifestandosi davanti al mondo”. DIALOGO COL FUOCO Qualche tempo fa un amico artista mi donò un grande respiro, una conferma, raccontandomi il suo rapporto con l’icona La Trinità di Andrej Rublev. “Un’opera, per me, è bella – mi disse – quando sento il desiderio di vivere con lei tutta la vita”. In verità, prima di correggersi, mi aveva detto sottovoce: “Quando sento il desiderio di rubarla”. Ho sentito quella stessa conturbante tentazione incontrando le opere di Hung. Non essendo un critico d’arte, infatti, non posso fare altro che donare le mie esperienze artistiche, fra cui quella con Lau Kwok Hung, classificato riduttivamente come scultore, è fra le più fondanti. Di lui posso esprimere solo ciò che osservo e oso comunicare solo ciò che vivo. L’atteggiamento più spontaneo che nasce alla presenza di un artista è quello della meraviglia. È da più di vent’anni che osservo Hung, battezzato John a Hong Kong dove nacque nel 1953. Ho avuto il fortunato e faticoso destino di lavorare lunghi anni con lui; i mobili, i quadri, gli strumenti di lavoro e tutto il resto nella nostra stanza creativa e nel suo atelier non duravano più di un mese nella stessa posizione. Ogni intuizione trascinava con sé, come un fiume in piena, tutto ciò che toccava, lasciando ogni volta in piedi solo il Bello. Era quello, infatti, l’unico valore a stare ritto in mezzo alla bufera e che continua oggi a rimanere irremovibile, anzi sempre più stagliato all’orizzonte, nell’opera di Lau Kwok Hung, nome che significa, guarda un po’: Inondazione del Regno. L’ho visto trasformare di tutto sotto la sua ispirazione vorticosa: dal marmo, che plasmava con energiche carezze, oltre che con delicati colpi di scalpello, ai colori, che voleva risaltassero in tridimensione, alle foto, così poco statiche che, seppure lontane dal più freddo realismo, invitavano al dialogo. Io scrivevo e, appunto, continuavo ad osservare e a meravigliarmi. Oggi la materia prima delle sue sculture sono verghe, la fiamma ossidrica e la legge spietata del fuoco. Ma che dico: quella è in realtà solo la materia seconda. La prima è quella forza capace di arginare in forme calde, le gocce fuse di metallo che corrono, ubbidienti, dove le porta il cuore dell’artista. Tutto il resto, metallo, cannello ossidrico, martelli e lime, maschera da saldatore e guanti di cuoio, scintille e bruciature (anche interiori), sono solo umili strumenti. Ciò che davvero conta è proprio quell’inondazione impetuosa che nasce dal cuore, inteso come centro della persona, che dà a Hung il coraggio di essere diverso. Mi aspettavo di essere travolto da un momento all’altro, raccolto com’ero in un angolo del suo atelier di Loppiano: vedevo Hung tracciare forme con gli occhi nelle mani, fondere col fuoco l’idea, piegare il metallo con la volontà, controllarsi con la forza, sollevare la materia, forgiare la visione, scolpire nello spazio la movenza, modellare la goccia, che correva, danzando le sue forme. Un dialogo a tinte forti e piacevole fra l’artista, il fuoco e la materia.