Dentro il reality
Le voci degli autori, dei protagonisti e dei critici spiegano successo e contraddizioni di un genere.
Spenti i riflettori sul Grande fratello 11 e chiuse le porte sulla casa più scrutata d’Italia. Anche l’isola sudamericana è stata abbandonata dai nostri vip avventurieri. E a tutti noi che abbiamo vissuto delle emozioni e dei colpi di scena dei più seguiti reality della nostra tv, cosa rimane?
Come colmare questa orfanezza nel nostro palinsesto quotidiano? Non ci resta che uno zapping consolatorio tra soap strappalacrime, repliche di primavera e dibattiti pre-elettorali che tenteranno di replicare, almeno per verve ciarliera i nostri divi, ma lo share non li premierà.
Niente potrà eguagliare il Grande fratello, L’isola dei famosi e i rispettivi vincitori, “bravi ragazzi”, garbati, normali, capaci di utilizzare il cervello e di non scadere; insomma Andrea Cocco, primo classificato del Gf, e Giorgia Palmas, eroina dell’Isola, danno ragione al critico Aldo Grasso che sul Corriere commenta: «Il reality sta abbandonando i suoi aspetti più trucibaldi e volgari».
Ma come viene costruito un reality? Perché ha così tanto successo? Chi lo guarda e cosa succede ai concorrenti che vincono e a quelli che perdono? È una deriva della televisione o una fotografia della nostra società?
Attorno a questi racconti popolari si concentrano dibattiti, analisi, ma anche fan club, riviste, gadget e trasmissioni satiriche, e persino dei vademecum che dispensano consigli su come passare le selezioni dei reality. Calato il sipario, si continua a lavorare già per le nuove edizioni.
Perché dietro al successo di un reality «c’è tantissimo lavoro – dice Gianmaria Tavanti, uno degli autori delle 11 edizioni del Gf –, perché il nostro, di fatto, è un programma che dura tutto l’anno».
A breve i nuovi provini, che in questi anni hanno visto sfilare ben 230 mila candidati. «Nella scelta guardiamo che il futuro concorrente abbia personalità, carattere, emotività e motivazione – controbatte Tavanti –. Conta l’aspetto fisico perché andiamo in televisione, ma non significa essere a tutti i costi belli. Conta la storia personale».
«È un percorso di notorietà per chi vuole cominciare una carriera televisiva – sostiene Giampiero Gamaleri, docente di Teoria e tecniche del linguaggio radiotelevisivo a Roma Tre –. Ci sono artificializzazioni e permangono ambiguità sullo spontaneismo». Più severo il giudizio di Stefano Martelli, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’ateneo di Bologna: «Questo spettacolo mostra senza alcun pudore un’umanità in tutte le sue miserie e volgarità. Il telespettatore le guarda “dal buco della serratura” e dice tra sé: “Io non faccio questo, quindi sono superiore a questa gente”».
«I ragazzi fanno quello che vogliono e non è vero che è tutto falso – dice Tavanti –. Il nostro intervento consiste nell’acuire le percezioni delle cose che avvengono nella casa, ma non a indirizzare i comportamenti perché non è nel Dna del programma. La prova è che non sempre il vincitore è quello che avremmo preferito noi o che avrebbe voluto lo stesso pubblico. Il nostro compito è procurare emozioni».
Ma nella memoria rimangono le bestemmie e i comportamenti sopra le righe. «Come mai non si interviene sul labiale dei calciatori che vediamo tutte le domeniche o sui comportamenti del Parlamento – contrattacca Tavanti –? Noi facciamo vedere anche i limiti della realtà di oggi, ma il Grande fratello è un esempio di integrazione: abbiamo avuto un rom, un ragazzo cieco, e sono stati trattati come tutti».
«Le emozioni non possono essere inventate – spiega Claudia Perna, concorrente del Gf 9 –. Io vengo ricordata come la “piagnona” perché mi commuovevo spesso, ma nessuno ci ha mai detto cosa fare, reagivamo secondo il nostro carattere». Claudia ha appena concluso le riprese della serie Agrodolce e in teatro interpreta Felicia Impastato, madre di Peppino, il giornalista di Cinisi assassinato dalla mafia. Ora vive a Roma, ma resta sempre legata allo Zen di Palermo e ai bambini dell’associazione di volontariato per cui lavorava. Il Gf le ha dato i soldi per iscriversi a un’accademia di recitazione, il suo sogno fin da piccola. «A otto anni scappavo da scuola per frequentare il laboratorio di teatro che sorgeva di fronte».
Ma non è stato tutto facile. «Dopo il Gf – racconta – la gente mi fermava per l’autografo e in borsa avevo appena cinque euro per mangiare. Quando vado nelle scuole a raccontare la mia esperienza, dico ai ragazzi di studiare, cercarsi un lavoro, perché il successo non nasce solo dal partecipare a un reality».
«Le mura del Gf non riparano dalla sofferenza e per di più rischiano di alienare i concorrenti dalla vita reale», dichiara Martelli. E tanti “nominati” dei reality confermano che la depressione è uno dei rischi più gravi. Dopo mesi trascorsi sotto i riflettori tra comparsate e feste, rientrare nell’oblio è uno shock. C’è chi come Paolo Mari, espulso dal Gf per atteggiamenti poco rispettosi, è finito in un ospedale psichiatrico e dopo mesi ha ritrovato equilibrio e un lavoro normale: l’idraulico. C’è chi è emigrato, come Fabiano Reffe e Lorenzo Battistello, perché la gente del paese li considerava dei falliti e degli incapaci. Gli stessi che li avevano esaltati diventano poi i peggiori dileggiatori.
Questi sei milioni e 662 mila italiani che hanno incoronato Cocco e i quasi cinque milioni di fan della Palmas sono stati costantemente
radiografati dall’Auditel: si tratta più di donne che di uomini, sono diplomati e con licenza media, mentre chi ha una laurea snobba il genere.
Al Sud si toccano i maggiori picchi di ascolto, ma sono quelli che guadagnano dai 2.500 ai 4 mila euro i veri appassionati. I giovani dai 15 ai 24 anni sono la fascia che ne decreta il successo, ma i fedeli hanno tra i 45 e i 60 anni. Dati interessanti, analizzati anche dai pubblicitari, perché, nonostante il calo di ascolti, forse perché distribuiti tra le decine di reality che spopolano sui diversi canali terrestri e satellitari (circa 60), gli incassi pubblicitari non sono mai calati, segno che fidelizzare rende.
«Che queste produzioni riscuotano consenso di pubblico è palese – conferma Gamaleri – ma la quantità di ore di registrazione incide sulla qualità e sulla dignità del progetto, per questo ogni anno si aggiungono concorrenti, espedienti, incursioni dall’esterno. Occorrerebbe una riforma del genere, magari ispirata alla lezione del neorealismo e capace di cogliere gli afflati spirituali, le emozioni positive, i momenti di profondità che non vanno a tutti i costi spezzati dall’effetto».
«Il format è stato venduto in più di quaranta Paesi – spiega Martelli – e in Africa alcune compagnie tv, non avendo risorse sufficienti, si sono associate per realizzare un’edizione multinazionale che ha riunito ben 12 Paesi. A mio parere, la febbre da Gf è passata e resiste agli antibiotici del buon senso e della noia da ripetitività e squallore solo in alcuni Paesi, come la Spagna». Anche lui propende per una riforma, ma la consegna ai telespettatori «nella misura in cui, usando il telecomando, sceglieranno altri programmi televisivi».
E forse questo tipo di riforma è già cominciato. Alcuni giovani ventenni, commentando le vittorie di quest’anno, notavano che a cambiare non erano stati i concorrenti, ma piuttosto i votanti che scegliendoli avevano dimostrato che anche a loro piace la tv fatta da “bravi ragazzi”.
Maddalena Maltese
BOX 1
L’ideatore del reality
Il produttore televisivo Erik Hendriks è il fondatore della Sylvester Productions, una delle maggiori compagnie televisive private del Belgio.
Com’è nata l’idea del “Grande fratello”? Anche lei ha avuto un’idea simile?
«Non so esattamente com’è andata perché è stato prodotto dalla Endemol. So che un anno prima della prima edizione del Grande fratello, la mia casa di produzione, la Sylvester, aveva fatto un reality in Belgio che si chiamava Sette vite. Sette giovani insieme per sette giorni vivevano insieme in un castello per parlare della loro vita. C’era anche la stanza del confessionale in cui potevano raccontare i loro sentimenti, le loro impressioni. Alla fine abbiamo chiesto ai giovani se erano d’accordo nell’usare le dichiarazioni fatte nel confessionale. L’idea non era solo parlare delle loro vite, ma di temi come paura, amore, desiderio, gioia, ira, ecc. Queste passioni fanno parte dell’uomo e sono ambivalenti, possono avere un valore positivo e negativo. Puoi essere iroso di carattere, ad esempio, ma puoi indignarti per delle situazioni intollerabili».
Vi hanno copiato l’idea?
«Una persona della Endemol dall’Olanda ha saputo del programma Sette vite e ha parlato con un collaboratore della nostra redazione. Non posso dire che hanno copiato perché lo hanno realizzato in un altro modo, ma c’erano degli elementi simili: la vita in comune di alcuni giovani dentro lo stesso luogo per un certo periodo di tempo, la stanza del confessionale, ecc… Noi li abbiamo chiamati reality plus, per mettere in rilievo un “di più” presente nella realtà, un minimo comune denominatore di valori condivisi all’interno di un gruppo, per mettere in evidenza soprattutto le cose positive».
Quali altre applicazioni positive avete fatto dei reality?
«Abbiamo realizzato Airport, ambientato nell’aeroporto di Bruxelles applicando le strutture narrative della soap opera. Si comincia con una storia ambientata nella dogana che dura due o tre minuti, poi seguiamo una hostess per due minuti, un’altra piccola storia per due minuti, e poi rientriamo nella dogana, ecc… È un reality nel senso di una storia vera ma raccontata come una soap. Il canale televisivo dove è andato in onda ci ha dato fiducia e ci ha permesso di realizzare un altro reality, chiamato Un aiuto in casa, basato sui servizi a domicilio, perché ci sono molte persone che fanno questo lavoro in Belgio, tutti i giorni. Abbiamo seguito gli interventi di un infermiere, un medico, un volontario, che aiutano persone malate, con handicap o in necessità come i poveri. Fatto come un reality, ma anche in questo caso, con un “di più”».
Quali aspetti negativi e positivi vede nel “Grande fratello”?
«Tutto è manipolato. Fin dalla scelta del casting, i concorrenti sono selezionati per far scaturire dispute, scontri, per suscitare azioni e reazioni già preventivate. Nel reality Exhibition Robinson, esiste un vero e proprio manuale di istruzioni, in cui sono indicati i comportamenti che devono seguire i concorrenti che non hanno tanta possibilità di scelta, sono molti limitati. Credo, invece, nel reality plus dove puoi vedere il negativo ma evidenziare di più il positivo».
Che valori veicola un programma come il “Grande fratello”?
«È basato sull’estremizzazione dell’aspetto voyeuristico, il desiderio di guardare. Un aspetto positivo è l’idea del contrario. Osservando i modelli culturali che propongono, io mi dico che non voglio essere così».
Come genere funziona ancora…
«Il reality puro, come il Grande fratello, non funziona più. In Olanda e Belgio, dov’è nato, da circa otto anni non si produce più. Fanno altri reality ancora più estremi».
Aurelio Molè
Box 2
La parabola di Marina
Marina La Rosa è stata una delle protagoniste della prima edizione del Grande fratello in Italia. Eravamo nel 2000 e il nuovo format ebbe uno straordinario successo di pubblico.
Come si sopravvive a un’esperienza così intensa?
«Per sopravvivere devi avere la capacità di relazionarti con la realtà e la sensibilità di avere i piedi per terra perché ti fanno credere di poter fare qualsiasi cosa. L’importante è avere dei punti fermi, degli amici veri, per capire giorno dopo giorno quali sono le cose importanti».
Esiste una trama narrativa da seguire dentro la casa del “Grande fratello”?
«Pur volendo non saresti in grado di seguirle, perché siamo persone comuni e non attori. Esistono degli input perché per esigenze delle varie trasmissioni occorre che succeda qualcosa per poter realizzare dei servizi filmati efficaci. Dopo un po’ non si parlava più tra noi, per cui venivano suggerimenti su cose da fare, il gioco in piscina, ecc.».
Sei andata in Messico per conoscere i bambini sostenuti a distanza tramite Azione per Famiglie Nuove?
«Non succede niente a caso nella vita. Era un periodo in cui ero un po’ insoddisfatta, non capivo bene verso che direzione stavo andando, quando mio cugino Manlio mi ha coinvolto in questo progetto. In Messico le sensazioni e le esperienze che ho fatto a contatto con i bambini poveri sono difficili da raccontare. È stato un incontro con Dio. Sembra un luogo comune ma ho avuto la netta sensazione che fosse lì il mio appuntamento con la vita, con Dio, anche perché non sono mai stata una praticante. È stato il regalo più bello che ho avuto».
Da pochi giorni sei mamma per la seconda volta…
«Da giovane non avrei mai pensato di fare la mamma. Ora ho due figli: Andrea e Gabriele. Li guardo e sono una meraviglia. È un miracolo. Anche perché tanta gente non ne può avere. Il secondo parto è avvenuto con in mano un rosario. Ho pregato tutto il tempo ed è stato un parto velocissimo, solo 50 minuti. Mi sono sentita aiutata da Maria, l’importante è affidarsi».
A.M.
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