Dentro il capolavoro
Nella nostra società dove la morte è gridata, mostrata, esibita fino all’orrore – e poi, passato questo, perduta nell’indifferenza – fa bene cogliere la voce del silenzio che Caravaggio ha impresso nella sua tela a Siracusa. Erano gli anni 1608-1609. Il pittore era fuggito dal carcere di Malta, braccato dai nemici, e a Siracusa, grazie all’amico Mario Minniti, trovava un momento di pausa. Girava attraverso i monumenti della città greca e romana, visitava le cave di pietra – le latomie – eccitava la fantasia nel ricordo del passato e dipingeva per la Chiesa di Santa Lucia una enorme tela (cm. 408 x 300), ancora oggi visibile ad Ortigia, l’isola-cuore di Siracusa.
La pala è vasta. Monumentale. Spoglia. Una parete grigia altissima ne occupa uno spazio che sembra infinito: sono le cave di pietra che divengono nel pittore le catacombe siracusane. Un muro immobile dentro un silenzio così profondo da bloccare i gesti dei personaggi, le cui proporzioni sono libere da qualsiasi regola. Il vescovo benedice la salma di Lucia, due grossi operai la stanno seppellendo senza alcun sentimento: è un lavoro di routine come il boia che decapitava il Battista nella tela di Malta. Davanti alla morte ci si può abituare e rimanere indifferenti.
Il coro dei dolenti, affollato e piccolo, stretti gli uni agli altri, prega e piange. Lui, Caravaggio, emerge con la testa fra loro con uno sguardo spaurito: sa che è un ricercato, chiunque lo può uccidere. Il focus del dipinto è Lucia, stesa a terra, morta, col capo riverso. Un corpo perduto nel silenzio. La morte è dramma, certamente, ma Caravaggio lo vuol mostrare nel suo aspetto di solitudine interiore: ogni personaggio in fondo è solo a contemplare la morte della ragazza bellissima, che pare ancora fresca. Il colore volge sul bruno e sul terroso, ravvivato da tocchi di luce, da improvvise accensioni di bianco e di rosso, dentro uno spazio così vasto da dare il senso di una eternità immobile e di una oscurità attraversa da bagliori.
Caravaggio “pesa” il dolore: diventa una musica funebre che partendo dalla parete e scendendo al corpo di Lucia, dolcemente spirata, ritorna come un vertice sulla mitra bianca del vescovo. Ma è musica sussurrata all’interno di un sepolcro dove non c’è posto per le parole o il rumore. Come aveva fatto nei dipinti della Passione di Cristo a Napoli, Vienna e Dublino, o nella sublime Morte di Maria al Louvre, anche qui l’artista blocca l’urlo, condensa il pianto nel silenzio. Affonda il suo cuore nella sofferenza e lascia spazio alla preghiera, al sentimento pudico, che rispetta il mistero della morte di Lucia, di ogni morte. Nella luce indistinta e fumosa la morte trova senso e così il dolore che si fa composto, intimo pur nella immensità di uno spazio che sembra non avere confine.
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