Dentro i dolori di Mumbai
La giornata dedicata al festival, nel cantiere internazionale dei giovani per un mondo unito celebra la diversità come ponte per il dialogo. Ai presenti si è aggiunto anche Zain, giovane giornalista indiano, inviato di Channel News Asia che avendo saputo di questo laboratorio internazionale, ha deciso di venire di persona a constatarne i lavoro e gli effetti perché «è importante che i giovani si interroghino su come essere generatori di dialogo».
Sono esponenti di diverse religioni a declinare questa parola attraverso approfondimenti teorici ed esperienze dirette. Inizia Metta, thailandese e buddista, professoressa di filosofia che precisa: «volersi aprire al dialogo significa creare una relazione. Quando ho conosciuto i Giovani per un Mondo Unito, mi sono sentita libera di esprimere la mia religione fino in fondo. E da allora, ho capito che, qui nella mia terra, potevo essere un ponte tra i buddisti e i cattolici e ho capito che anche come cittadina sono chiamata a dare un contributo attivo alla costruzione della nostra società e a non limitarmi solo alla condivisione verbale».
Vinu, direttrice dello Shanti Ashram, un movimento gandiano, e presidente onoraria della conferenza mondiale “Religions for Peace” precisa che il dialogo va fatto con «tutto di sé stessi: con la voce, con le idee, con azioni concrete. Dialogo è, innanzitutto, azione: ascoltarsi reciprocamente, capirsi fino in fondo, e poi agire. In questo momento storico poi è importantissimo il dialogo intergenerazionale».
Il dialogo con l’Islam è approfondito da Marco, italiano che ha vissuto tantissimi anni negli Stati Uniti d’America. «Nel 1997, Chiara Lubich venne a trovare l’imam W.D. Mohammed nella moschea Malcom X di Harlem (un quartiere di New York). Tremila musulmani afro-americani dell’American Society of Muslims la ascoltarono e, da allora, abbiamo cercato di continuare quel dialogo così intenso. Mi ricordo, ad esempio, che a seguito degli attentati alle Torri Gemelle del 2 settembre 2011, la comunità musulmana era molto scossa. La tensione, ad Indianapolis, era molto alta. Una sera, alcuni dei nostri amici musulmani ci raccontarono che avevano ricevuto minacce e l’avvertimento di non avvicinarsi alla moschea. Dovevamo fare qualcosa. Il venerdì successivo, giorno della loro preghiera comunitaria, decidemmo di far sentire la nostra vicinanza assistendo per tutta la celebrazione. Loro erano nostri fratelli, e dovevano sentirsi liberi e sicuri». Racconta tante altre esperienze che, messe insieme, tracciano una bellissima e concreta storia di dialogo fra due comunità. «Tre mesi fa ho saputo che dovevo tornare in Italia. Con mia grande sorpresa, a pochi giorni dalla partenza ho ricevuto una telefonata dall’imam dove diceva: “Devo ringraziare Dio perché, nella mia vita, ho avuto due fratelli. Uno dei due sei tu”».
Segue Racid, giovane algerino musulmano, racconta di come ha cercato di far sentire accolti alcuni giovani cattolici in una comunità a maggioranza musulmana: «siamo partiti da piccoli gesti, come una cena o festeggiare insieme; atti concreti che costruiscono ponti di fraternità fra le persone e le culture».
Munal, dell’organizzazione “Anem Prem” (Amore Incondizionato) spiega che di fronte alla differenze, «ognuno di noi può scegliere di chiudersi in se stesso oppure iniziare a costruire rapporti personali veri, iniziare a dialogare con tutte le persone che incontriamo. Bisogna stare attenti perché, spesso, pensiamo che l’opposto dell’amore sia l’odio. Invece, l’opposto dell’amore è l’indifferenza verso le persone e le situazioni sociali».
Nel pomeriggio, in otto gruppi si sono visitate alcune realtà sociali della città. Udisha (in urdu “Il raggio di sole che porta una nuova alba”) ad esempio è un progetto che coinvolge, ogni anno, oltre 100 bambini, ragazzi e giovani e molte madri. Ma c’è anche chi è entrato in un istituto che cura i malati di lebbra e chi ha visto come si organizza un tetto per i bambini senza fissa dimora: tutte esperienze toccanti. Insomma, le storie da raccontare sarebbero tante. Ma basta guardare gli occhi dei giovani che tornano per sapere che, per ciascuno, è stata una esperienza molto forte, toccante, ma anche entusiasmante e che ha lasciato dentro tanta voglia di fare!
In serata, si chiude con un vero e proprio festival in stile indiano con cibo, musica e colori, dove ciascuno dei partecipanti presenta la propria cultura anche attraverso le danze e i canti: l’arte resta sempre un ponte di incontro universale.