Dentro e fuori, la pace

Nell’epoca della visibilità a tutti i costi, la pace sembra ridotta a una parvenza, una patina superficiale consunta. E invece è essenzialmente un’operazione nei cuori, dei singoli e dei popoli

Siamo nel secolo dell’immagine e della post-verità, cioè della verità che non ha corrispondenza con la realtà, ma con quello che riesco a far credere sia vero. Si gioca con la pace, ridotta troppo spesso a mera parola, slogan senza spessore, cose da infanti, tu credi ancora alla pace, povero te, ahahah! Un giocattolino da relegare nel limbo dei sogni. La pace è ridotta al detto latino si vis pacem para bellum, o se vogliamo alla Settima filippica di Cicerone: si pace frui volumus, bellum gerendum est, se vogliamo godere della pace, dobbiamo fare la guerra. Cioè, la pace non sarebbe altro che una tregua tra due guerre, sarebbe un periodo in cui si fanno tacere le armi per prepararsi alla nuova guerra. La normalità sarebbe la guerra, l’eccezione sarebbe la pace.

La “società dell’immagine” di McLuhan o la “società dello spettacolo” di Debord sembrerebbero privilegiare la guerra, semplicemente perché la guerra fa molto più spettacolo della pace, buca lo schermo, la belligeranza ama mostrarsi, mentre la pace preferisce nascondersi. Le trasmissioni, i post, gli articoli con parole grosse attirano spettatori, mentre due persone che si mostrano ma rispettandosi reciprocamente, senza interrompersi, amano ascoltare il pensiero altrui e poi con garbo presentare eventuali critiche sono ormai cose fuori dal mondo, per uomini e donne che non hanno piglio.

Di più, e lo dico per esperienza, è molto più facile raccontare la guerra che la pace. Mettere in scena la pace richiede molte più energie e molta più creatività che rappresentare la battaglia. Quando mai hanno successo videogiochi o cartoon che sviluppano pensieri di pace? I romanzieri, anche i più esperti e animati da spirito di pace raccontano meglio la guerra che la pace, Guerra e pace, Tolstoij stesso ha messo prima la guerra e poi la pace. La pace da lui evidenziata risalta solo su uno scenario di guerra. Insomma, la guerra ama la visibilità, la pace il nascondimento, quindi oggi sembra non esistere. Non appari? Non esisti, sembrano proclamare le filosofie social.

Parallelamente a un tale trionfo della visibilità bellicista, sembra avanzare la sconfitta apparentemente inappellabile dell’interiorità, roba da psicanalisti e preti più che da politici e da militari, da volontariato più che da professionalità. E invece la pace solo esteriore non è che verbiage, sulla bocca dei facitori di guerra la pace è solo il risultato della guerra, la pace esaltata dalla post-verità è solo sconfitta del debole sul forte, è vittoria dell’ingiustizia. «Pace e giustizia si baciano», proclama il salmista.

E invece la vera pace parte proprio dall’intimo, ha bisogno di almeno 9 mesi di gestazione come la vita, solo se radicata nei cuori la vita vince l’effimero. Non per niente i grandi profeti della pace sono cultori dell’interiorità. La pace che non ha radici nell’interiorità dopo poco tempo si rivela per quello che è, parvenza, spettacolo, vernice superficiale, icona senza modello. È per questo che fa paura sentire la parola “pace” sulle labbra di persone che hanno la lingua biforcuta, che non hanno il rispetto per la realtà ma creano di continuo scenari di sopraffazione.

Naturalmente, la pace nasce nell’interiorità, ma ha il suo compimento nell’essere “artigiani di pace”, “facitori di pace”. Scriveva Massimo Toschi, profeta in carrozzina: «L’obbedienza della Chiesa alla pace, la prima e più densa parola annunciata dal Risorto, non è cosa che si ottiene a basso costo, ma ha il prezzo alto della croce, là dove viene giudicato e sconfitto il principe di questo mondo, che è principe di divisione, di violenza, di morte». Ciò richiede «un esodo profondo e radicale da antiche e nuove schiavitù, da antichi e nuovi concordati con il potere». La prospettiva cristiana è questa, non quella della visibilità a buon mercato, anche se i politici e gli intellettuali di turno si rifanno ai principi cristiani e pensano di esserlo solo perché si proclamano contro l’aborto o contro l’eutanasia, ma poi ammazzano con le loro armi stuoli di nemici. Chi si dice cristiano, raccontano secoli di profeti, è per la vita dall’inizio alla fine dell’arco dell’esistenza, anche per i suoi estremi, certamente, ma non solo per i essi.

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