Democrazia a rischio con la cyberpolitica

Se mancano il vero dibattito e il confronto su una idea di Paese al tempo della campagna elettorale 4.0 manovrata da algoritmi e programmi software

Il fenomeno più noto legato a quella che viene definita cyberpolitics è certamente legato alle “fake news”, ovvero a quell’insieme di notizie false la cui diffusione mediante i social ne avrebbe ampliato la percezione di valore, arrivando a condizionare opinioni politiche nonché i risultati delle diverse campagne elettorali in giro per il mondo. Il più noto, il “Russiagate”, sta tuttora imperversando negli Stati Uniti mettendo in forte imbarazzo il presidente Trump ed il suo entourage.

Effettivamente la trasformazione digitale (quella che in Italia chiamiamo Industria 4.0) ha occupato anche l’arena politica facendo velocemente invecchiare tecniche di comunicazione politica tradizionali e note agli elettori. Negli USA sono molte le imprese startup specializzate per gestire la cyberpolitics, utilizzate massicciamente a partire da Obama nel 2012, e alcune si affacciano anche in Europa, segnalando l’impatto inarrestabile del fenomeno.

Dati recenti ci dicono che In Italia la televisione mantiene il primato di canale informativo sulla politica: ad essa si rivolge il 36,7% della popolazione, ma Internet incalza al 27,3% (ben 40 milioni di persone, 31 milioni dei quali sui social) lasciando alla carta stampata il restante 15,9%.

I nuovi approcci si affiancano così a quelli tradizionali. Ciò che cambia, è la modalità d’uso dell’enorme mole di dati (big data) a disposizione: i professionisti dell’acchiappa-voto possono articolare in modo diverso e mirato l’offerta del marketing politico,  sfruttando i punti di debolezza della psicologia di diversi tipologie di cittadini. Assume così forme e modi molto sofisticati il rapporto fra psicologia e politica mediato dal web, in una comunicazione (o forse interazione?) politica che ha cambiato scala e portata.

Se, come direbbe Kahneman, psicologo Nobel per l’economia, le persone tendono a condividere pregiudizi più che giudizi, gli algoritmi del web e le scelte su quali notizie enfatizzare o quali idee proporre nella campagna elettorale, sono attualmente pensati per confermare le convinzioni di ciascuno, non certo per far ragionare e aumentare la riflessione.

Ecco che lo spazio informativo, invece di costituire uno spazio aperto in cui offrire proposte e far comprendere posizioni diverse, per arricchire i punti di vista e i criteri di scelta, rischia di diventare  una “echo chamber”, nella quale risuonano e vengono confermate le preferenze iniziali inibendo quella che è l’essenza della democrazia, ovvero la discussione pubblica (citando Sen altro Nobel per l’economia).

Nel cyberspazio si aprono scenari inediti: ne sono un esempio i “political bots”, programmi software che si fingono umani e intervengono in modo automatico a favore o contro un candidato nelle discussioni sui social. Nelle ultime elezioni americane del 2016 sono stati rilevati 400mila bots, pari al 15% degli utenti Twitter, che hanno inviato 3,8 milioni di tweet (19% delle conversazioni). Ai bots si affiancano i “suckpuppet” (pupazzi), false identità che servono al medesimo scopo. La combinazione di “politcal bots” e “suckpuppet” consente di fare “Astrosurfing”, ovvero creare un alone informativo e comunicativo di grande supporto rispetto ad un candidato, un partito politico, una singola proposta.

La cyberpolitics genera due effetti dirompenti tipici delle forme di rappresentanza post-ideologica.

Il primo è un effetto istituzionale, la disintermediazione: l’uso di big data (grande mole di dati), machine learning (algoritmi che si migliorano continuamente confrontanto le previsioni con i dati effettivi) e canali social (rinforzati dalla comunicazione televisiva) rende il “tradizionale” partito politico e il suo sistema di funzionamento inutile, per sostituirlo con proposte politiche quasi individualizzate, modulabili e vincenti, senza bisogno di luoghi fisici di sintesi nonché di discussioni, mozioni e votazioni! Questo approccio consente un apparente rapporto diretto con il popolo costituito da singoli elettori, spianando la strada a fenomeni “populistici”.

Il secondo effetto riguarda l’agenda politica: la definizione del programma non esprime una cultura politica e/o una visione del Paese, ma avviene aggregando dal basso le preferenze dei cittadini, quotidianamente testate e aggiustate grazie alla raccolta ed elaborazione dei dati in un vero e proprio sondaggio permanente. L’effetto, del quale si sperimentano i primi segnali anche in Italia, è il repentino e continuo cambiamento delle posizioni delle forze politiche (si, no, forse euro) che porta il barometro politico ad assomigliare sempre più alle quotazioni della borsa valori con le sue nevrotiche oscillazioni.

In Nuova Zelanda ci si è spinti persino oltre: Sam è un robot che vuole candidarsi alle prossime elezioni 2018 e in un’intervista afferma che «a differenza di un politico umano, io sono in grado di considerare le posizioni di tutti e di prendere le decisioni più efficaci e più giuste, senza pregiudizi». In teoria Sam potrebbe piacere al filosofo politico John Rawls realizzando scelte giuste “con velo di ignoranza”. Ma se l’intelligenza artificiale si occupa di scelte razionali, che massimizzano l’utilità individuale dell’elettore, un problema di decisione è qualitativamente diverso da un problema di scelta, come ricorda l’economista Stefano Zamagni.  Per scegliere bene è sufficiente essere razionali (e bastano gli algoritmi), per decidere bene occorre essere virtuosi!

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