Democrazia e legge elettorale

Sono tante le conseguenze della riduzione del numero dei parlamentari confermata con il referendum costituzionale

Tra i possibili effetti derivanti dalla riduzione del numero dei parlamentari, approvata per il referendum lo scorso 20-21 settembre, vi è la (ennesima) riforma della legge elettorale. Scriviamo possibili perché, in effetti, si potrebbero eleggere i futuri 400 deputati e 200 senatori con le disposizioni vigenti. Anzi ciò è esattamente quanto il legislatore ha previsto, assicurando l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari (l. 51/2019 che, a tal fine, ha trasformato i numeri in rapporti
proporzionali).
Allora quali sono le motivazioni politiche per cui si vuole nuovamente cambiare? Innanzitutto per l’evidente considerazione che con meno seggi a disposizione occorreranno più voti per essere eletti e quindi vi sarà una maggiore selezione delle forze politiche in grado di ottenere rappresentanza parlamentare (cosiddetto sbarramento implicito). Tale effetto selettivo rischia di amplificarsi se si considera che i seggi attribuiti con formula proporzionale sono solo i 5/8, mentre i restanti 3/8 lo sono con metodo maggioritario che (in ipotesi) favorisce i maggiori partiti. Questo è il motivo per cui si vorrebbe passare a un sistema interamente proporzionale.
In secondo luogo, in conseguenza dell’approvata riduzione, il numero dei senatori da eleggere in alcune regioni sarà così minimo (3 in Umbria e Basilicata; 4 in Friuli Venezia Giulia, 5 in Sardegna e Marche) da impedire di fatto al metodo proporzionale di poter dispiegare i suoi effetti. È evidente, infatti, che con numeri così ridotti, i seggi in palio saranno conquistati anche in questo caso dai partiti maggiori, Per questo motivo, oltreché abolire la quota maggioritaria, le camere stanno discutendo una riforma costituzionale che, abrogando la base regionale del Senato, consenta di unire in un’unica circoscrizione regioni diverse e quindi eleggere più
senatori.
Infine, c’è un terzo motivo che spinge a una riforma: l’abolizione delle liste bloccate, invise alla maggioranza degli elettori. In quale direzione? I più auspicano un ritorno alle preferenze, dimenticando che esse elevano i costi delle campagne elettorali, alimentano i rischi di voto di scambio (specie nelle regioni meridionali in cui è statisticamente dimostrato il maggiore ricorso ad esse), aumentano la competizione nei partiti, degradandoli a meri comitati elettori e contribuendo a renderli ancor più disgregati; infine, non garantiscono (anzi!) il miglioramento della classe politica. Furono queste le ragioni che portarono nel 1991 e nel 1993 a restringere e superare poi le preferenze. Al posto delle preferenze, allora, si potrebbe, a mio parere, ritornare ai collegi uninominali (anche abbinati al proporzionale) che avvicinano gli elettori all’eletto, specie se espressione di quel territorio, impongono ai partiti una migliore selezione delle candidature e annullano la competizione all’interno del partito, con conseguente riduzione delle spese elettorali dei
candidati.
Ci sono buoni motivi, dunque, per rivedere la legge elettorale. Che poi tale riforma li accolga, e ancor prima, che essa sia approvata è tutt’altra storia, visto che purtroppo l’esperienza di questi ultimi 15 anni – in cui si sono avvicendate tre leggi elettorali (2005, 2015 e 2017) e due sentenze d’incostituzionalità (2014 e 2017) – dimostra che, quando si tratta di stabilire le regole elettorali, le forze politiche difficilmente non guardano anche al proprio specifico interesse.

L’Autore dell’articolo è professore in Istituzioni di Diritto pubblico, Università degli Studi di Enna “Kore”

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