Democrazia e conflitto d’interessi
L’argomento è tra i più antichi: da quando si è cominciato ad attribuire alla comunità politica lo scopo del bene comune, si è anche posto il problema di mettere in grado coloro che governano di separare l’interesse privato da quello pubblico. Una commistione tra i due, si è sempre pensato, nuoce allo stato e può perfino mandarlo in rovina. Quando poi la democrazia ha maturato i suoi principi e le sue forme, questa separazione non ha avuto più soltanto una connotazione morale, riguardante la rettitudine del governante, ma un preciso fondamento politico: i regimi democratici possono prosperare solo se i diversi poteri dello stato sono tra loro separati, e se si distinguono nettamente anche dai centri di potere che la società civile sviluppa attraverso le attività dei cittadini: il potere economico, informativo, educativo, ecc. Quando si parla, in Italia, di un “conflitto di interessi” relativo alla persona del presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, si scatenano le fazioni; lo vediamo anche da talune lettere di nostri lettori, che ci richiamano alla coerenza evangelica in base alle quale, per alcuni, dovremmo scomunicare il Cavaliere, per altri dovremmo beatificarlo. Il pericolo presente in questi nostri lettori, come nelle forze politiche, è quello di subordinare ad interessi, materiali o ideologici, di parte, la soluzione di un problema vitale, che può arrivare solo grazie ad un impegno davvero “alto” delle forze politiche e ad una partecipazione costante e attenta da parte dei cittadini. È da questa combinazione di elementi che scaturiscono le soluzioni messe in atto da altri paesi. Prendiamole in esame, per confrontarle, poi, con le proposte attualmente in discussione in Italia. Uno sguardo internazionale Stati Uniti, Gran Bretagna, Fran- cia, Spagna e Germania ritengono incompatibile l’incarico di governo con l’esercizio di altre attività professionali, compresa la partecipazione alla direzione di imprese e le consulenze, dalle quali il membro del governo deve astenersi durante il mandato. Tutti questi stati adottano un criterio di trasparenza per cui richiedono (tranne la Germania), all’atto della nomina o della candidatura, una o più dichiarazioni dove vengano indicati con precisione gli incarichi ricoperti, le attività professionali, la situazione patrimoniale, la fonte, il tipo e l’entità dei redditi; devono essere dichiarati non solo gli interessi del titolare della carica, ma anche quelli del coniuge e dei figli. Le informazioni vanno periodicamente aggiornate. E sono previste anche diverseforme di limitazione dell’attività successiva al mandato, specialmente se dovesse riguardare ambiti che sono stati oggetto della funzione di governo, in modo che colui che ha ricoperto una carica non possa avvantaggiarsene subito dopo. Stati Uniti e Spagna Negli Stati Uniti le norme sull’incompatibilità tra le cariche pubbliche e le attività private non riguardano soltanto i membri del governo, ma anche quelli del Congresso, gli impiegati e i funzionari pubblici, compresi i magistrati e i dipendenti degli uffici giudiziari. Le dichiarazioni degli interessati, al momento di assumere la carica, di candidarsi per le elezioni politiche, o di venire assunti, vengono esaminate da una autorità di controllo, l’Office of Government Ethics, che, dal 1989, ha lo status di Agenzia indipendente. Qualora ravvisi incompatibilità, l’Office indica i provvedimenti da adottare per assolvere alle prescrizioni di legge. Tra questi provvedimenti ci può essere il cambiamento dei compiti del funzionario, o l’assegnazione a un diverso ufficio; alla persona in questione si può proibire di intervenire in ambiti di ufficio nei quali può avere un interesse privato; si può chiedere di disinvestire in tutto o in parte il proprio patrimonio mobiliare. Inoltre, è previsto un istituto al quale tutti gli ultimi presidenti statunitensi hanno fatto ricorso per evitare la vendita dei propri beni: il blind trust. Hanno cioè ceduto l’amministrazione delle proprietà ad un gestore di propria scelta, purché riconosciuto dall’autorità di controllo. Il gestore è tenuto a non comunicare al proprietario i propri atti, e ha anche facoltà di vendere le proprietà ricevute in gestione. È chiaro che, per un imprenditore, questa “amministrazione cieca” che introduce un taglio nella continuità della direzione dell’azienda è un grosso sacrificio e, a volte, anche un danno. Se l’imprenditore che entra in politica fosse costretto a vendere entro un certo periodo di tempo, sareb- be una catastrofe: l’obbligo di vendita turberebbe i normali equilibri di mercato: più che una vendita sarebbe una svendita. Il blind trust dovrebbe impedire che ciò avvenga, perché, se la vendita si rendesse necessaria, verrebbe compiuta dal gestore nel momento più opportuno, cercando di non danneggiare l’azienda. Non si può certo sostenere che negli Stati Uniti la proprietà privata non sia rispettata: eppure, essi ritengono necessario imporre un tale sacrificio per preservare le istituzioni da ogni ombra di sospetto, e per garantire una netta separazione tra i poteri. Anche la legge spagnola allarga le incompatibilità oltre la stretta cerchia governativa, a tutte quelle che considera “alte cariche” dello stato, fino a tutti i membri dell’amministrazione generale nominati dal Consiglio dei ministri e ai presidenti delle società commerciali a partecipazione statale maggioritaria. Pure in Spagna è prevista, a determinate condizioni, la vendita dei beni: le “alte cariche”, non possono possedere oltre il 10 per cento di imprese che abbiano rapporti contrattuali di qualunque tipo con il settore pubblico. E se controllano o partecipano a società commerciali che emettono titoli negoziabili devono ricorrere al blind trust. Regno Unito, Francia, Germania Le cose cambiano se si guarda ad altre democrazie europee. Nel Regno Unito è in vigore, dal luglio 2001, il Ministerial Code che, adottato dal Cabinet Office, attua le indicazioni fornite nel 1995 dalla “commissione Nolan” in merito ai princìpi che devono guidare l’esercizio delle cariche pubbliche. Il Ministerial Code non è una legge, ma, coerentemente con la tradizione giuridica britannica, ha carattere deontologico, di autoregolamentazione. Rivolgendosi ai ministri, parte dal principio che non solo nessun conflitto deve insorgere, ma neppure “sembri insorgere tra le loro cariche pubbliche e i loro interessi privati, finanziari o di altro genere”. La soluzione del conflitto è demandata all’iniziativa di ogni singoloministro. I criteri di soluzione segnalati sono la dismissione dei beni, peraltro non obbligatoria; oppure il blind trust; o, ancora, l’astensione da parte del ministro dall’accesso a documenti e dalla partecipazione a decisioni che tocchino gli ambiti nei quali ha interessi privati. Qualora sussistano dubbi sulla soluzione adottata dal ministro, il capo del governo può chiederne le dimissioni. E se in sede giudiziaria venisse accertato che il ministro si è occupato – con azioni o con omissioni – di ambiti nei quali ha interessi economici, i suoi atti verrebbero invalidati. Quanto alla Francia, la sua legge è prevalentemente orientata a prevenire e combattere la corruzione. Questo spiega perché al membro del governo sia vietato un ruolo direttivo non in tutte le imprese, ma in quelle esclusivamente finanziarie, immobiliari, che godano di sovvenzioni da parte dello stato, o la cui attività sia prevalentemente rivolta a eseguire lavori, forniture o servizi per conto dello stato o sotto il suo controllo. In ogni caso, il divieto impedisce la direzione d’impresa durante il mandato, non mette in discussione la proprietà. La stessa funzione della Commission pour la transparence financière de la vie politique riguarda il controllo delle dichiarazioni dei membri del governo, la valutazione di eventuali variazioni patrimoniali sospette nel corso del mandato, ma non prescrive né vendite di proprietà né amministrazioni fiduciarie. Anche la legge tedesca si pronuncia solo sulle attività dei membri del governo, e non prende in considerazione le possibili incompatibilità tra la carica e le proprietà. Che cosa ricaviamo dagli altri paesi? Che le soluzioni sono diverse e flessibili, e ogni nazione modella lo strumento legislativo sulla propria cultura e sui propri specifici problemi. I princìpi, invece, sono gli stessi per tutti: dovremmo trovare la “via italiana” per affermarli. Il problema italiano Se il “conflitto di interessi” in Italia si riducesse alla proprietà di imprese che producono viti e bulloni, o alla mera professione di ministri e parlamentari, i problemi sarebbero facilmente risolvibili. Ad esempio, il ministro dei Trasporti ha interessi in aziende che si occupano delle grandi opere in progetto da parte del governo? Si poteva dargli un altro ministero. Il presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, che deve decidere sulla procreazione artificiale, è un ginecologo che pratica la procreazione artificiale? Sarebbe stato sufficiente dargli un’altra commissione. In Italia non si fa neanche questo, ma l’adozione di una qualunque delle leggi degli altri paesi potrebbe farcelo fare. La specificità italiana sta nella proprietà, da parte del presidente Berlusconi, di giornali e televisioni. È in gioco, cioè, quello che è stato defini- to “quarto potere”, e che dev’essere tenuto separato dagli altri tre. Quale sia il peso politico delle televisioni ce ne siamo accorti nel 1994, all’apparire del “fenomeno Forza Italia”: il Dipartimento di Scienze sociali dell’università di Torino, monitorando un campione di cittadini nel corso della campagna elettorale, dimostrò che le reti Rai portarono due milioni di voti alla sinistra, e le reti Fininvest ne attirarono quattro al centro-destra. Gli elettori, orfani della Democrazia cristiana, chiedevano dove andare, e le televisioni glielo dicevano. Il governo ha, di fatto, un forte potere di condizionamento sulla televisione pubblica: se al governo si insedia il proprietario dell’altro maggiore blocco televisivo, vengono meno le condizioni del pluralismo informativo. Questa situazione non può essere accettata: non perché il presidente Berlusconi sia cattivo, ma semplicemente perché la democrazia lo vieta; nessuno dei paesi che abbiamo nominato finora la accetterebbe. Come cercano di risolvere il problema le due principali proposte – del governo e dell’opposizione – attualmente in campo? Presidente Berlusconi, non me ne voglia, ma la sua proposta è fortemente inadeguata: consente, a patto di non avere più, formalmente, la direzione delle imprese televisive lasciandone la gestione ai propri collaboratori abituali, di continuare ad interessarsene. Lei prevede l’istituzione di una Autorità di garanzia, che intervenga per accertare che i titolari di cariche pubbliche non abbiano favorito se stessi; ma il problema, qui, non è la corruzione: l’Autorità dovrebbe eliminare, a priori, le condizioni che possono provocare il conflitto di interesse, non giudicare fatti isolati dopo che sono stati compiuti; lo stesso accesso alla carica dovrebbe essere bloccato dall’Autorità, se essa vede nel candidato il pericolo di un conflitto di interessi. La sua proposta, inoltre, non indica quali misure si prevedono per impedire il conflitto; e neppure i provvedimenti che debbono essere presi quando esso si produce; l’Autorità “segnala” e “esprime pareri”: ma perché la chiama “Autorità” se non ne ha alcuna? La proposta Rutelli-Fassino si ispira sostanzialmente al modello statunitense: prevede il blind trust e la possibilità di vendita dei beni. Quest’ultima, nel caso italiano, è una proposta fondata, per quanto riguarda le televisioni, per almeno due motivi. Prima di tutto, lo scopo del blind trust è quello di rendere “cieca” l’amministrazione dell’azienda, cioè di impedire al proprietario di vederla: ma questa è una condizione irrealizzabile quando l’azienda è un mezzo di comunicazione. In secondo luogo, in democrazia è cruciale che sia plurale la proprietà dei mezzi di informazione. Le reti televisive, dunque, a mio personale parere, vanno vendute. Ma sarebbe ipocrita fermarsi qui, senza guardare al perché le televisioni del presidente del Consiglio sono tre e sono grandi. La loro dimensione ha prima di tutto ragioni aziendali: non si può stare sul mercato e fare concorrenza alla Rai (per giunta sostenuta dal canone), con una azienda di dimensioni inferiori; se Mediaset è così com’è, lo è a causa della Rai. È vero che la democrazia non può accettare un potenziale monopolio televisivo; ma non può accettare neppure un duopolio che di fatto impedisce l’emergere di altre televisioni a livello nazionale che non si occupino solo di canzonette o televendite. Un solo proprietario non può possedere tre televisioni, neppure se è lo stato. Ci troviamo oggi con queste sei reti, che trasmettono le stesse cose, che non si sono specializzate, che non si fanno una concorrenza sulla qualità: in tal modo, le esigenze dei telespettatori vengono mantenute artificialmente basse, e milioni di persone guardano trasmissioni che verrebbero scartate se l’offerta fosse diversa. Se lo stato decidesse di mantenere una presenza pubblica nel settore televisivo, per garantire un servizio orientato al bene comune, per offrire prodotti di qualità che il mercato, attualmente, non riesce a pagare, potrebbe farlo con una sola rete. È un dovere politico favorire il pluralismo informativo, moltiplicando la proprietà delle altre reti. Su questo problema, come cittadini, abbiamo il compito, mi sembra, di andare al di là delle appartenenze di partito, e prenderlo sul serio, come un problema di bene comune: è in gioco la libertà di informazione, senza la quale la democrazia non vive.