Delocalizzazioni e lavoro, una partita difficile da giocare
Nella divisione dei compiti del nuovo governo pare che Matteo Salvini abbia scelto la parte più semplice. La linea dura contro le organizzazioni umanitarie che salvano i migranti in mare sembra pagare in termini di consenso. La protezione dei confini e il timore dell’invasione smuove sentimenti ancestrali che si risvegliano nei momenti di crisi di un Paese dove si contano 5 milioni di poveri assoluti, come riporta l’Istat senza suscitare, ormai, grande scalpore.
Come per il calo demografico si tratta di tendenze difficili da invertire e di fronte alle quali si può fare poco, mentre il migrante “irregolare” è facile da intercettare, bloccarne lo sbarco e rimandarlo indietro il prima possibile. La convinzione della propria personale impotenza genera un rancore nascosto pronto ad esplodere. Un meccanismo che non ha funzionato, come segnala Redattore sociale, con Marcello Gostinelli, operaio di 56 anni che è in procinto di perdere il posto di lavoro perché la multinazionale belga Bekaert ha deciso di chiudere lo stabilimento di Figline Valdarno, vicino Firenze. Non proprio un’aziendina con i suoi oltre 300 lavoratori ereditati recentemente dal gruppo Pirelli passato dal controllo di Tronchetti Provera a quello della China National Chemical Corporation, chiamata comunemente ChemChina, cioè una azienda pubblica di Pechino. La Bekaert ha rilevato tutti gli stabilimenti, nel mondo, dello storico marchio milanese che producono cordicelle metalliche per pneumatici. Il fenomeno della globalizzazione dei capitali non è nuovo. Il fondatore della Pirelli già nel 1920 stabiliva una delle sedi principali a Bruxelles per motivi fiscali, tra le due guerre mondiali come fonte di grandi commesse commerciali.
Che potere può esercitare il lavoratore davanti a strategie che non riesce a controllare? Sicuramente quello di cercare di capire qualcosa di ciò che accade, senza cedere a rappresentazioni di comodo per qualcuno. È il percorso che ha compiuto Marcello dopo che, come ha raccontato, una mattina, appena entrato in fabbrica «il caporeparto è venuto verso di me, mi ha abbracciato e mi ha detto che avrebbero chiuso l’azienda». Questo trauma non ha impedito al lavoratore di andare alla manifestazione di Firenze di solidarietà con i migranti e dire sul palco: «Non ho paura di chi ha il coraggio di venire qua, su una barca, senza nulla, per aggrapparsi agli scogli e cercare una vita migliore. Ho paura dei ricchissimi, che arrivano, sfruttano il mio lavoro, mi prendono tutto, e poi mi chiudono lo stabilimento in trenta minuti».
La parte difficile del governo se l’è assunta il giovane Di Maio che occupa due ruoli ministeriali strettamente connessi tra di loro come Lavoro e Sviluppo economico. In quelle stanze romane restano aperti centinaia di dossier sulle crisi aziendali che fanno scendere in piazza la popolazione e i sindaci con il tricolore, simbolo di una sovranità difficile da esercitare davanti ai capitali finanziari immateriali, liberi di muoversi al contrario delle persone in carne e ossa.
Di Maio non ha imbellettato il suo curriculum. Tutti sanno che deve completare gli studi nella facoltà giuridica di Napoli dove insegna De Luca Tamajo, il principe del foro che ha fatto vincere molte battaglie legali alla Fiat, ora Fca che proprio a Pomigliano d’Arco, luogo di nascita di Di Maio, ha visto consolidare il modello globale che detta condizioni unilaterali di lavoro, pena l’incubo della delocalizzazione. Una prospettiva che comunque può materializzarsi se conviene alla remunerazione del capitale. È ciò che avviene in questi giorni nel bresciano dove la multinazionale americana Invatec Medtronic ha deciso di chiudere i siti produttivi di Roncadelle e Torbole, spostando all’estero (Messico) produzione, ricerca e sviluppo di alta recnologia sanitaria. Un trauma per 314 dipendenti. Il 90% donne.
Contro questa pratica corrente, la ricetta del decreto dignità, redatto dagli esperti del ministro del Lavoro, prevede, «entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata», un sistema di sanzioni e restituzioni,con gli interessi, delle agevolazioni e aiuti di stato ricevuti dalle società che licenziano personale in Italia e delocalizzano all’estero. Non si comprende se la norma si applicherà anche nei trasferimenti intra Ue.
Appare una battaglia impari se confrontata con la maggiore persuasione che è capace di esercitare, invece, Trump negli Usa, di indurre al reshoring, cioè alla rilocalizzazione di imprese sul suolo a stelle e strisce. Una forte pressione che ha convinto anche la Fca di Marchionne, verso la quale ogni richiesta di credito in Italia appare ormai andata in prescrizione e affidata agli storici dell’industria degli Agnelli, simbolo del capitalismo italiano.
Il peso delle organizzazioni imprenditoriali si è già avvertito con lo stralcio dell’abolizione dello staff leasing, una forma contrattuale che interrompe, cioè, a tempo indeterminato, il rapporto diretto tra datore di lavoro reale e dipendente.
E già le interpretazioni più ligie ai fondamenti del libero mercato avvertono sulle possibili conseguenze depressive di norme sanzionatorie delle imprese che devono, invece, essere attirate in Italia.
Sulla questione delocalizzazioni aveva alzato la voce l’ex ministro allo sviluppo economico Carlo Calenda a proposito del caso Embraco definendo come cialtroni alcuni consulenti del lavoro che avevano curato gli interessi della multinazionale statunitense, mentre ha potuto far poco contro la Honeywell che è andata via dal teramano con effetti depressivi immaginabili in un’economia già colpita dal terremoto. L’Italia si trova a giocare un campionato mondiale molto difficile perché le regole non sono affatto equilibrate.
Una lotta molto dura, con interlocutori notevolmente più forti dei migranti e delle organizzazioni umanitarie.
Sulla questione lavoro e delocalizzazioni la rivista Città Nuova ha dedicato ampio spazio di analisi nei recenti numeri del mensile.