Il delitto di Alatri. L’amore più forte della morte

Emanuele Morganti fu ucciso a 20 anni, il 26 marzo del 2017. La mamma Lucia lotta perché non accada mai più.

La sua ultima notte è un venerdì di Quaresima. Il 24 marzo 2017 Emanuele Morganti, 20 anni, esce per andare in discoteca ad Alatri con la fidanzata e gli amici. Scoppia una lite per futili motivi. Emanuele cade a terra, rantola. Un pestaggio a calci e pugni di una dozzina di violenti lo uccide. Muore in ospedale due giorni dopo, una settimana prima di Pasqua. A cosa è servita la sua morte? Ce lo racconta la mamma Lucia.

I fatti. Emanuele Morganti è un giovane, vivace, simpatico, sempre con il sorriso e la voglia di scherzare. Non è un attaccabrighe, al contrario, è benvoluto da tutti a Tecchiena, in provincia di Frosinone, dove abita. Appassionato di caccia e pesca e amante del silenzio della natura, quel venerdì su invito della fidanzata, come svago dopo il lavoro, si sposta di nove chilometri alla discoteca Mirò Music Club di Alatri per passare una serata in musica.

L’innesto della bomba si accende per uno screzio. Un giovane, detto l’albanese, che non parteciperà alla rissa, è sotto effetto di un mix di alcool e droga. Vuole bere, ma in fila al bancone c’è prima Emanuele. Dopo due, tre urti Emanuele lo respinge e un branco inferocito lo attacca. Cade una prima volta. I buttafuori, che sanno bene con chi schierarsi, lo prendono e lo scaraventano fuori dal locale. Emanuele non vuole la lite, tanto più con gente sconosciuta, si allontana nella adiacente piazza Regina Margherita di Alatri e viene raggiunto e picchiato con una violenza inaudita da una dozzina di scalmanati che non sopportano che qualcuno si possa opporre alla loro prepotenza e senso di dominio. È forte Emanuele, si difende, aiutato solo dall’amico Gianmarco, ma cade a terra una seconda volta. Si rialza, ferito e si allontana. Si ricorda, però, che nel locale c’è ancora la sua ragazza e ha dimenticato il giubbotto con le chiavi della macchina che il papà gli aveva prestato per raggiungere la discoteca. Torna indietro ed è la volta fatale. Viene riconosciuto, inseguito e finito definitivamente. Cade la terza volta ed è picchiato anche quando è a terra. La donna del “capo” gli sputa addosso: è la sua firma di disumanità bestiale.

Il suo respiro è leggero, rantola. Non si riprenderà più. Trasportato a Roma viene operato, anche se il suo cervello ha perso il 90 per cento del sangue, solo per la sua giovane età. È un tentativo che i medici sanno, e lo comunicano alla famiglia, del tutto inutile. Il giorno dopo, il 25 marzo, dichiarano la morte celebrale e il seguente, il 26, ogni apparecchiatura è divincolata da un corpo da un volto irriconoscibile. Frattura cranica scomposta causata da traumi, botte, colpi è la causa della morte di un bravo ragazzo, una vittima innocente.

Emanuele si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato, ma l’assurdo è che poteva succedere a chiunque. L’odio per lui è stato del tutto accidentale, è un odio represso che scatta e si libera in furia gratuita. Il motivo? Ribadire chi comanda, che nessuno deve ribellarsi al potere, che il territorio è controllato da esseri che non hanno più nulla di umano. È possibile? Succede ed è successo. Il processo condanna 3 imputati a 16 anni e uno di loro è agli arrestati domiciliari. Ora attendono la sentenza della Corte d’Appello di Roma. Per la famiglia è un’ingiustizia palese.

Al tempo del coronavirus le storie si possono raccontare solo al telefono, ma questa volta non è una favola. Provo a chiamare Lucia Morganti al cellulare con timore di accostarmi ad una mamma attraversata da una grande tragedia. Non risponde, ma mi richiama subito. Scopro con sorpresa una donna che, in qualche modo, ha superato un dolore insuperabile. La sua voce è dolce come un soffio leggero di aria fresca d’estate, ha voglia, pur tra le lacrime, di parlare di Emanuele, di dare un senso alla vicenda che ha vissuto. Non per sé ma per gli altri. Perché, se possibile, non accada mai più o almeno si alzi la guardia, si generino degli anticorpi nella società per una svolta sostanziale.

emanuele-morganti-illustrazione-di-valerio-spinelli«Anche se parla di morte – racconta Lucia – quella di Emanuele è una storia d’amore. Questo vorrei trasmettere: la gioia di avere avuto il mio cucciolo d’angelo». La sua battaglia ora è diventata una profezia. Avvertire. Ammonire. Salvare almeno un altro ragazzo. Vorrebbe che la storia di suo figlio fosse conosciuta nei media, nelle scuole, per formare le coscienze, mandare un messaggio forte agli adolescenti e ai genitori. C’è una vita sola, vale la pena spenderla bene, per la verità, per le relazioni autentiche, per le cose che non passano. Non per i beni effimeri che non danno la felicità. «La giustizia dello Stato ci sarà, ma si sopravvive solo nell’immensità dell’Amore di Dio che ho trovato, scoperto, avvertito. Più forte della morte».

Qualche giorno dopo l’eccidio una telefonata inattesa. È papa Francesco. Aveva provato più volte. Quando Lucia, un giorno che era appena tornata dal cimitero, risponde, sente dire: «Sono papa Francesco, è tanto tempo che ti cerco». Solo lacrime dall’altro capo del telefono. «Ti aspetto – vieni a trovarmi – in Vaticano».

Lucia non dormiva da giorni, troppo agitata, scossa, inquieta. «Quella telefonata – commenta – mi ha dato una grande serenità e pace interiore che non so spiegare e non potrò mai dimenticare. Sono andata a letto e, per la prima volta dopo la scomparsa di Emanuele, ho dormito sette ore di seguito». In seguito il papa per ben due volte gli propone un appuntamento per vederla, ma non sarà possibile perché Lucia da 8 anni è una malata oncologica e preferisce scrivergli una lettera.

«L’importante per me è trasformare il dolore, che non sia subito, passivo, ma diventi un aiuto, un messaggio d’amore per altri ragazzi in pericolo. I figli oggi sono lasciati soli in balia del consumismo. Il rispetto, l’educazione sono i valori senza età da riscoprire nelle famiglie, altrimenti i ragazzi sono come delle scatolette vuote».

Tra poco sarà Pasqua e Lucia vede il suo Emanuele «ingiuriato, sputato, maltrattato, picchiato ingiustamente, vittima innocente come Gesù». «Da Lassù mi aiuta e mi ricorda che senza amore non si va da nessuna parte. Si lotta in cielo e terra per la nostra lotta». Uno splendido romanzo-reportage, Emanuele nella battaglia di Daniele Vicari per Einaudi, racconta la sua vicenda.

 

 

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