Il decreto dignità è legge
Il dibattito aspro di questi giorni sul decreto Dignità ne ha messo chiaramente in evidenza luci ed ombre. Se è vero che la competizione politica, mai così aspra nei gorghi della comunicazione contemporanea, esaspera il confronto tra favorevoli e contrari su ogni fronte, è anche vero che provvedimenti più lungimiranti godono di un maggiore vento a favore.
Il confronto tra le decisioni in materia d’azzardo e di lavoro è da questo punto di vista indicativo. Sull’azzardo il governo ha avuto il coraggio di recepire un’istanza da molto tempo sollevata dall’opinione pubblica e dai movimenti noslot sulla scia di una piaga crescente come quella della ludopatia. Piaga drammatica che coinvolge non solo i giocatori ma anche tutti i parenti e familiari le cui vite e sorti economiche vengono inevitabilmente condizionate da tali comportamenti.
Il divieto di pubblicità è una decisione sacrosanta che interviene a sanare il paradosso di una differenza inspiegabile tra la pubblicità sul fumo (negativa e capace di mettere in risalto in modo fin troppo crudo gli effetti negativi sulla salute) e pubblicità sull’azzardo che, fino ad oggi, esaltava ingannevolmente la possibilità attraverso il gioco di fare la “fortuna” di una vita. Oltre che profondamente dannosa sul piano educativo (la “fortuna” non è la leva di una macchinetta ma investire con fatica nel proprio futuro professionale e di relazioni) la pubblicità sull’azzardo era infatti anche profondamente ingannevole vista l’enorme sopravvalutazione implicita della probabilità di grandi vincite. Bene anche l’obbligo della tessera sanitaria per giocare. Ancora da raggiungere un altro obiettivo del movimento no slot che è quello delle macchinette fuori dai bar.
Per quanto riguarda il decreto dignità le migliori intenzioni di difendere la dignità del lavoro si scontrano con una cattiva comprensione a mio avviso dei fenomeni economici sottostanti. In un mondo globalmente integrato dove il costo del lavoro e di produzione da noi è sensibilmente più alto che in paesi poveri o emergenti regole che irrigidiscono il mercato del lavoro finiscono per aumentare il gap e la differenza di costo aggravando lo svantaggio competitivo per le nostre imprese con il rischio di perdere e non di tutelare lavoro. Nello specifico le regole più severe per il rinnovo dei contratti a tempo determinato rischiano di generare nero o turnover aziendale con costi economici e sociali per imprese e lavoratori.
Se è vero che gli abusi gravi vanno combattuti, il punto fondamentale è che in un sistema globalmente integrato si difende meglio il lavoro agendo dal lato della domanda che irrigidendo le regole dal lato dell’offerta. La strategia da seguire è ridurre quel gap tra noi e i produttori esteri migliorando il sistema paese (infrastrutture fisiche e digitali, tempi della giustizia, costi e tempi della burocrazia), agendo sulla fiscalità del lavoro dove però ogni intervento costa e creando regole negli appalti e nelle imposte sui consumi che penalizzino le filiere al di sotto di standard sociali ed ambientali accettabili e premino quelle che invece sono al di sopra. La politica dell’IVA, giù oggi differenziabile a livello nazionale, deve diventare il caposaldo di una vera e propria strategia volta a premiare le filiere più sostenibili.
Sul fisco il decreto dignità viene incontro ai professionisti allentando obblighi che avrebbero però avuto il vantaggio di contrastare elusione ed evasione. Su questo specifico punto il governo non ha il coraggio di sfruttare la luna di miele con il Paese avviando un piano deciso sulla scia del famoso principio “pagare meno pagare tutti”. Ovvero nel Paese c’è spazio per ridurre del 20/30% il peso fiscale se si riuscisse a sconfiggere elusione ed evasione. Le vie per realizzare questo obiettivo esistono (eliminazione o forte riduzione del contante, riforma portoghese con casse dei negozi collegate all’agenzia delle entrate e possibilità per i consumatori di contrasto fiscale). La vera sfida comunicativa è renderle politicamente appetibili all’opinione pubblica.