Chi decide sulle bombe del Sulcis?
Martedì 10 maggio si riunirà l’assemblea degli azionisti dell’industria tedesca che controlla la fabbrica che nel Sulcis produce bombe destinate all’Arabia Saudita, che le usa nella guerra in corso in Yemen. La manifestazione di domenica 7 maggio promossa dai Focolari in Sardegna si è intitolata “Pace, parliamone”. Come a dire: non possiamo dire nulla? La democrazia si esercita solo al momento del voto? Salvo poi accorgersi che questioni vitali e di coscienza restano assenti nel dibattito dei partiti come delle presunte classi dirigenti, come una rimozione dolorosa di assetti del potere incontestabili. Già nel 2001, in pieno clima di terrore per l’abbattimento delle Torri gemelle a New York e la continuazione del lungo conflitto in Afghanistan, una parte significativa della società civile del posto aveva espresso la propria contrarietà per un processo di riconversione verso il settore delle armi pesanti di una fabbrica di esplosivi destinati al lavoro nelle miniera. Un’esistenza scemata nel tempo. Restano alcuni gruppi irriducibili legati al movimento non violento e ad espressioni antagoniste ad esprimere un dissenso coerente e minoritario sempre sul filo di scatenare reazioni della forza pubblica. E che contribuiscono a relegare una questione rilevante di responsabilità collettiva a pura materia di cronaca, in modo tale da allontanare chi vorrebbe esprimersi ma nei fatti resta senza parole.
Non c’è davvero nessuna alternativa? La marcia del 7 maggio ad Iglesias, collegata con la rete internazionale Run for unity, ha voluto offrire una possibilità di riscatto per questa terra, e anche per l’Italia intera, che non può restare impotente davanti a strategie industriali decise dal potere del denaro. Perché agitare uno scandalo temporaneo ma coltivare la coscienza personale e collettiva per poter costruire un’economia che sia incentrata sulla persona e non su strategie di dominio? «Non si può restare indifferenti», come afferma l’inizio dell’appello lanciato a livello nazionale per sostenere un percorso che può crescere e svilupparsi a partire dalla Sardegna. In una comunità che conserva dei patrimoni inesplorati di conoscenze e bellezza, come l’antica chiesa bizantina ad Iglesias, recuperata alla collettività, da dove è partito un variopinto e festoso popolo della pace tra cui molti giovani, che sono i primi a essere consapevoli della crisi del lavoro e della disoccupazione endemica che li espelle di fatto dalla loro terra.
Si può certificare il fallimento di una politica che giustifica la produzione di bombe per mantenere qualche posto in questa isola oppure si può pazientemente credere che un mondo più degno di vivere e produrre è davvero possibile? Non dovrebbe esserci bisogno di un papa a ricordarci che nessuna bomba può essere chiamata “madre” come la “Moab” sganciata con orgoglio dal nuovo presidente Usa. Quelle del papa appaiono parole che racchiudono un grido lanciato per svegliare una coscienza assopita che può condurre fatalmente alla catastrofe, mentre il destino che si vuole proporre è quello che parte dal realismo consapevole della fragilità e fallibilità della condizione umana, dalla compressibilità degli equilibri geopolitici senza arrendersi alla banalità del male.
Si tratta di un percorso appena ricominciato che si apre al concorso di tutti e che chiama in prima persona la responsabilità dei decisori politici senza lasciare che a decidere siano solo le commesse di una ricca nazione che investe pesantemente in armi e gli azionisti di una grande industria europea che qualche memoria del secolo passato non possono non coltivare come criterio di giudizio e di azione.