Decapitazioni, perché?
Le recenti decapitazioni dei due giornalisti americani, avvenute in Siria da parte dell’ISIS e diffuse tramite video sul web, hanno causato sgomento e molte polemiche per la brutalità delle immagini e la loro diffusione indiscriminata.
Nei reportage di questi fatti dolorosissimi, ben pochi media scelgono espressioni come “uccisi, giustiziati, trucidati”. La maggior parte utilizza esplicitamente l’espressione “decapitati”. Perché i comunicatori sentono il bisogno di essere così specifici in queste situazioni? Perché la decapitazione di un essere umano colpisce la nostra sfera emotiva così intensamente? Perché i militanti dell’ISIS utilizzano la decapitazione per uccidere i loro ostaggi e ne diffondono le immagini in tutto il mondo?
Anche in questo caso – come in molti altri – dobbiamo tornare indietro nel tempo per trovare la risposta a queste domande.
Per la maggior parte delle culture primitive la testa – sede delle funzioni di pensiero e dell'immaginazione e che gestisce i sensi di udito, gusto, odorato e vista – rappresentava la sede dello spirito, in relazione al resto del corpo che era, invece, una manifestazione della materia.
Anche a causa della sua forma, simile ad un contenitore sferico, si pensava che la testa racchiudesse l’”essenza” di ciascun individuo.
Così, tramite la decapitazione, si intendeva privare la persona della sua identità spirituale, condizione indispensabile per affrontare la vita nell’aldilà.
Come sappiamo, nel corso dei secoli, la decapitazione ha assunto significati importanti in tutte le principali civiltà, seppur con numerose variazioni ed interpretazioni: nell’Impero romano era riservata ai cittadini romani, perché ritenuta rapida e onorevole, mentre la crocifissione era per gli schiavi e per chi aveva attentato all’unità dell’impero; la mitologica decapitazione di Medusa ad opera di Perseo, nonché quelle di Giovanni il Battista, dell’apostolo Paolo, di Maria Antonietta, Tommaso Moro e Maria Stuarda (come di molte altre) intendevano probabilmente proclamare l’eliminazione dei valori trasmessi dai “condannati”. Nel Medioevo la decapitazione divenne la condanna a morte “ufficiale”, prendendo il nome di “pena capitale” (caput = testa).
Èimportante notare che questa crudele pratica ha assunto un significato particolarmente infamante soprattutto presso le popolazioni dell’Asia e dell’Africa. Al giorno d'oggi la decapitazione come sentenza capitale è usata in Arabia Saudita, Qatar, Yemen ed Emirati Arabi Uniti e viene praticata in pubblico tramite la spada per tutti i reati che “portano la corruzione sulla Terra”.
Il ruolo della comunicazione, ossia della modalità di diffondere pubblicamente la decapitazione, è sempre rilevante.
Nei secoli scorsi, le decapitazioni erano svolte nelle pubbliche piazze, come monito alla popolazione; i media – in particolare il “democratico” web – sono diventati il palcoscenico planetario per comunicare, attraverso immagini più o meno brutali, l’intenzione di distruggere – oggi come allora – la natura umana della vittima e i valori che rappresenta.
Ma, mentre i media rappresentano un indispensabile strumento di propaganda per le culture che, sentendosi in situazione di vittime/inferiorità, intendono denunciare al mondo le motivazioni (soprusi, rivendicazioni, etc) di questi omicidi, per le culture dominanti, come quella americana, potrebbero invece rappresentare un pericoloso boomerang.
Infatti alle culture più potenti vengono delegate responsabilità maggiori, sia nel campo dei diritti umani che nelle modalità di comunicazione. Un’esecuzione pubblica di “nemici della nazione americana” trasmessa in mondovisione provocherebbe probabilmente reazioni differenti e più clamorose.
In ogni caso, i media stanno ricoprendo un ruolo educativo – e non solo informativo – sempre più importante. I fatti e le persone assumono un ruolo rilevante soltanto se e quando sono trasmessi attraverso i mezzi di comunicazione. La responsabilità dei comunicatori – e quindi di tutti noi, che possiamo trasmettere qualsiasi video e immagine al pianeta – nella diffusione di contenuti è enorme, ma, probabilmente, poco percepita.
Un esempio di questa scarsa consapevolezza è l’abitudine di realizzare “selfie” (fotografarsi tramite il cellulare) in situazioni di dolore altrui, come di fronte al relitto della Concordia o nella scena di un omicidio appena avvenuto. Essere comunicatori è – oggi più di ieri – una grande opportunità che potrà aiutarci a realizzare un mondo migliore, se sapremo sfruttarla attraverso un uso consapevole della nostra testa.