Debito pubblico e promesse elettorali
Pensate ad una comune agricola autogestita e autosufficiente, come quelle che sognavamo dopo il ’68, con tanto di presidente eletto ogni anno a fine estate. Immaginate anche che la coltivazione principale sia il grano.
Quale sarà il candidato che raccoglierà più consensi tra i membri della comune? Quello che si impegna a lesinare il consumo del grano che si mieterà nel prossimo giugno, in modo che ne resti abbastanza per una buona semina nel successivo novembre e anche per sfamarsi fino al nuovo raccolto? O quello che promette grandi festeggiamenti per tutta l’estate, lasciando tacitamente al prossimo capo della comunità lo sgradevole e impopolare compito di gestire la scarsità che caratterizzerà l’annata seguente? Dalla risposta a questa domanda dipendono le speranze di successo di quella comune.
Proprio qui si annida uno dei principali motivi di preoccupazione per l’Italia di oggi, dove il lascito di un governo all’altro, anziché la scorta di grano in magazzino, è il livello del debito pubblico. Se gli elettori continueranno a ragionare in modo superficiale, premiando le promesse di una finanza pubblica più generosa nell’immediato, e sorvolando invece sulle spiacevoli conseguenze che si manifesterebbero in seguito, la discesa verso il tracollo sarà inevitabile.
Discorso troppo pessimista? Temo di no. Dalla fine degli anni ’40 in poi c’è stato un unico vistoso episodio di riduzione del peso del debito pubblico. Era il 1996 e il debito superava il 120% del Pil. Con l’obiettivo di poter partecipare alla moneta unica europea venne decisa una riduzione di spese, unita ad un aumento straordinario della tassazione (forse qualcuno ricorda la cosiddetta “tassa per l’Europa” pagata nel 1997).
Questo sforzo avrebbe avuto un impatto limitato sul debito se a esso non si fosse aggiunto un benefico effetto di amplificazione: mentre nel 1996 per un prestito di 10 anni allo Stato italiano i mercati finanziari chiedevano un interesse di ben 4 punti percentuali più alto rispetto a un prestito allo Stato tedesco, nel giro di 3 anni quella differenza (detta spread) era crollata a pochissimi decimi di punto percentuale.
Così, mentre nel 1996 la spesa per interessi sul debito pubblico era stata dell’11% (sic!) del Pil, nel 1999 era già scesa a poco più del 6%. Per effetto di questo drastico miglioramento della fiducia verso lo Stato italiano, ormai legato alle più solide economie d’oltralpe dall’adesione all’euro, i tassi di interessi che dovemmo pagare restarono bassi e il debito pubblico continuò a scendere anche negli anni successivi (fino a toccare il 100% del Pil nel 2004). Facendo un bilancio, il sacrificio che complessivamente i cittadini dovettero fare in quegli anni fu forse di 6 punti percentuali di Pil, ma questo fruttò almeno una ventina di punti percentuali di Pil di alleggerimento del debito, grazie ai tassi di interesse più bassi. “Un affarone!”, direbbe qualcuno che guarda avanti.
Ma nel 2001 gli elettori si affrettarono a punire il governo che lo aveva realizzato. E si intuisce facilmente perché: per capire l’importanza di quei 20 punti di debito in meno occorre un ragionamento un po’ astratto e lungimirante, mentre per accorgersi delle tasse in più e dei loro effetti di raffreddamento dell’economia non serve sforzarsi molto. E così la gestione della finanza pubblica tornò ad allentarsi, con la conseguenza che l’arrivo della crisi del 2008 ci trovò più vulnerabili, fino al ben noto episodio del novembre 2011 in cui lo spread raggiunse il 5,74 %, con le conseguenti dolorose politiche di austerità.
Questo per il passato. E adesso che il debito pubblico è oltre il 130% del PIL? Adesso la tentazione di ascoltare chi propone maggiori spese e minori tasse è ancora più attraente di prima, perché ci viene promesso che in questo modo i conti pubblici miglioreranno. Come sempre, un po’ di vero nel ragionamento c’è: più spese e meno tasse danno una spinta alla produzione e ai consumi e quindi anche alle entrate fiscali. Purtroppo però, l’esperienza insegna, non in misura sufficiente a fare il miracolo. Una scelta del genere, quindi, è adatta ad uno Stato con un debito contenuto: il debito salirà un po’, ma intanto la crisi si attenua, c’è più lavoro e aumenta il reddito dei cittadini. Un Paese che è già sull’orlo del burrone questo però non può farlo. O, meglio, non può farlo da solo. È per questo che i nuovi orientamenti dei governi di Francia e Germania aprono nuove speranze per un futuro che speriamo non troppo lontano.
Ma un’Italia superindebitata che oggi si affidasse a promesse irresponsabili perderebbe la fiducia di cui ancora gode presso i suoi creditori. E allora ci troveremmo a rimpiangere la pur difficile condizione attuale dell’Italia.
NOTA: sulla questione controversa del debito pubblico il quotidiano Avvenire sta dedicando ampio spazio a un dibattito necessario, che cittanuova.it segue da tempo con interventi nel merito, come, ad esempio, l’intervista a Carlo Clericetti e quella a Antonio De Lellis