De Gregori vs Pausini. Divergenze parallele
Il vate di Monteverde e la romagnola da esportazione. Due mondi, e due modi radicalmente diversi di proseguire una carriera e d’affrontare i mercati. Non è solo una questione generazionale, o di imprinting artistico, e nemmeno dipende solo dal fatto che il primo rappresenti il perfetto format del cantautore, e l’altra uno dei più fortunati esempi di cantante internazional-popolare. Certo entrambi amano il successo, ma al contempo sanno che per mantenerlo occorre oltre che mestiere e talento, anche credibilità; e dunque la capacità di rinnovarsi senza stravolgersi. Ed è qui che le loro strade si biforcano, prendendo, oggi più che mai, direzioni diametralmente opposte.
Ormai in vista dei 65 anni, il prode Francesco si è lanciato in un progetto tanto affascinante quanto impervio: tradurre Bob Dylan, ovvero il suo dichiarato maestro e modello di riferimento. Un operazione tutt’altro che facile, specie con l’infinità di problematiche ritmiche, e metriche che comportano le canzoni. Si sa, in ogni traduttore s’annida un traditore; non necessariamente gaglioffo o opportunista. Ma in questo caso tocca dare onore al merito e definire splendida l’operazione del più aristocratico e spocchioso dei nostri cantautori; che rispetta l’anima degli originali riducendo al minimo le licenze poetiche, epperò aggiungendovi molto di suo. Un atto d’amore dunque, molto più di un furto con destrezza, tanto più che va pur detto che anche il suo altrettanto scorbutico eroe citava e talvolta rubacchiava – in primis da Woody Guthrie – a confermare che da che mondo e musica esistono, nulla s’inventa e nulla si distrugge. Se non certe carriere… Al momento non è dato sapere se il maestro abbia avuto modo d’ascoltare l’allievo e che ne pensi (del resto dubito che possa valutarne i pregi e i difetti non conoscendo la nostra lingua), ma per chi come me annovera l’ex menetrello del Minnesota tra le più grandi voci del Novecento, l’operazione appare non solo legittima, ma anche ottimamente compiuta: proprio perché De Gregori è riuscito a coniugare divertissement e cura esegetica, accordando il suo primario ispiratore alla sua specificità espressiva. Un doppio carpiato con avvitamento che gli ha consentito, tra l’altro, anche un duplice beneficio: spezzare il tran-tran produttivo di una carriera oggettivamente sfiancante, e ribadire al proprio pubblico che la sua ispirazione non s’è ancora infeltrita.
Tutt’altra storia, per l’undicesimo capitolo della romagnola più amata dai latini d’ogni continente. Lei sui mercati c’è tornata dichiarando fin dalla copertina la voglia di tener botta sui ghiotti mercati delle imminenti feste, nonostante la ressa di blasonate competitor (tipo Adele, di cui rappresenta una sorta di versione mediterranea). Ebbene, con questo Simili Laura da Faenza ha provato ad evadere dalle gabbie del pop da supermercato – non per sfuggirne la routine come il succitato collega, ma piuttosto per dimostrare al mondo la sua voglia d’emanciparsene, offrendo, anche a livello lessicale, qualcosa di un po’ più alto e stilisticamente variegato di certe pausinate imbottite di buonismi e luoghi comuni. Un album fin troppo vario a detta di molti, giacché oltre al solito pop-rock iper-sentimentale, la signora ha siringato nelle nuove canzoni echi flamencati, reggae, perfino hip-hop. Ma nel complesso anche questo disco “funziona” e non tradisce le attese. Merito beninteso anche del gran mestiere di chi la guida e la supporta (e pure in questo suo giocar di squadra c’è un’abissale differenza con l’orgogliosa autarchia di mastro Francesco). Il risultato è un altro anello importante della sua carriera: concepito in quattro anni di lavoro e registrato in giro per il mondo, giusto per ribadire le sue ambizioni cosmopolite. Esattamente come il baricentro degregoriano continua ad essere la turris eburnea del suo microcosmo poetico.