De Chirico e Savinio, due artisti e un solo mondo
Non è facile tra fratelli andare d’accordo. Tra fratelli artisti, poi, e di talento grande. Giorgio e Andrea de Chirico: eccoli qui. Due personalità che hanno fatto la storia dell’arte italiana del primo Novecento e influenzato quella europea. Perchè non solo hanno dipinto, ma anche illustrato libri, curato regie e scenografie teatrali e liriche, scritto romanzi e testi critici, e anche composto musica, almeno Andrea. Che si è ribattezzato Alberto Savinio per distinguersi dal dominante fratello.
Nati e vissuti in Grecia, quell’Ellade mitica rimasta sempre impressa nella mente e nelle opere, hanno girato attraverso l’Europa – con punte stabili a Parigi –, e sono riapprodati infine in Italia, a Roma, dove sono morti Andrea a 60 anni e Giorgio a 90.
Le 130 opere raccolte fino al 30 giugno alla Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo (Parma) dicono molto sui due fratelli amici-rivali, sulla partenza comune, sulle reciproche influenze e sulla distinzione necessaria e non sempre facile fra i due. La mostra parte con intelligenza con il Prometheus immenso sopra un’isola di Arnold Bocklin (1882), affiancandogli le visioni di Giorgio e Alberto (1929). Giorgio scurisce le tinte e pone l’eroe sopra un dirupo greco a picco sul mare, Alberto fa affacciare un nudo di schiena, un corpo vasto, una testa minima sulle onde marine.
È teatro, per entrambi. Mitologia: amata, rivisitata. Mistero e silenzio: solitudine, la grande protagonista dei lavori di entrambi. E insieme la voglia di stupire: Giorgio inventando piazze deserte, spazi “metafisici”, eroi greci, e Alberto figure antropomorfe, surreali, mostri fantastici.
Alla grecità Giorgio ritorna periodicamente come nel dipinto di Ippolito (1955-1956), un sogno del mito antico rivisitato con nostalgica amarezza. Fa lo stesso anche Savinio ne L’ira di Achille (1930), un corpo enorme ed una testa ricciuta piccolissima: la deformazione del mito, il pensiero di una bellezza infranta.
I due fratelli sono dei visionari. Se Giorgio passa dalle sterminate e vuote piazze agli eroi-manichini soffusi di luce mesta, senza occhi perché tutto è enigma nella vita, Alberto si rifugia in un surrealismo dove ad esempio i doni dei Magi (1929) diventano pacchi vaganti sopra il deserto: la figura umana è annullata. O ridotta a linea vagante, come nel fantasioso Le départ de la colombe (La partenza della colomba, 1930) dove al realismo degli animali corrisponde la linea dei corpi umani, fantasmi in movimento.
Talora Alberto sfiora l’allucinazione. L’Annunciazione del 1932 vede una enorme faccia d’angelo classica affacciata alla finestra: Maria sta seduta, con la testa di una gallina o di una gru. Irridente? No, provocatorio e onirico. Savinio viaggia nel sogno, ma con volontà, segno di una infelicità per il mondo presente. E mentre Giorgio, in una delle tante fasi della ricerca, dipinge cavalli al vento e gladiatori, Alberto negli anni Trenta gli risponde stravolgendone la nostalgia antica in forme dis-umane, quasi a mo’ di centauri.
Della rassegna, divisa in otto parti, affascina quella dedicata ai bozzetti teatrali. Ecco le figure e le scene disegnate per La leggenda di Giuseppe di Richard Strauss per la Scala (1951), per il Mefistofele di Boito (1952), per Apollo Musagete di Stravinskij (1956) di Giorgio; per l’Oedipus rex di Stravinskij (1948), per I racconti di Hoffmann di Offenbach (1949), per l’Uccello di fuoco (1949) di Alberto. Se Giorgio è figurativo, Savinio usa un segno incisivo, astratto.
Alberto muore nel 1952, all’improvviso, Giorgio nel 1978. Erano ormai lontani, pur vivendo a Roma. Eppure, li legava il medesimo sentimento: la paura e il fascino del mistero, la nostalgia del mito, la volontà di fuggire il presente del secolo breve nella fantasia.
(catalogo Silvana editoriale)