De Andrè, 50 anni de La buona novella
Il libro è solo un amarcord o è ancora attuale?
Non è un’operazione di amarcord. Ancora oggi è possibile ascoltare le canzoni di De Andrè con la sensibilità della nostra stagione. Parto da una esperienza personale. Prima di pubblicare il libro in varie conferenze ne ho parlato a giovani tra i 23 e i 25 anni. Non conoscevano La buona novella e ne sono rimasti incantati soprattutto del valore artistico del disco.
A cosa sono interessati i giovani che incontri?
Dalla piacevolezza della musica, dal lavoro di un gruppo che diventerà la PFM, la Premiata forneria Marconi, dagli arrangiamenti del maestro Reverberi, impregnati ancora del rapporto con la musica classica. I testi sono davvero pura poesia, in particolare Il sogno di Maria oppure Il ritorno di Giuseppe che vengono considerati i pezzi più riusciti del canzoniere deandreiano e colpiscono all’impronta. Sono fatti conosciuti, ma c’è l’immersione in una dimensione poetica che fa sentire vicine queste vicende.
La tua è ancora un’opera di contestualizzazione storica del disco?
La stagione politica degli anni ’70 è contradditoria, ma estremamente ricca. Non si tratta di tornare indietro nel tempo, con un pizzico di nostalgia, ma di utilizzare i testi e le musiche di De Andrè per dimostrare che la vera arte dura del tempo e non bisogna solo essere legati all’uscita dell’ultimo disco. Il fatto di contestualizzare il disco in un periodo di preciso, un lustro dopo il Concilio Vaticano II, un biennio dopo il ’68, di cui non si ha più memoria, aiuta nella comprensione di un periodo che sembra preistoria.
Qual era il panorama storico‒culturale? Perché il progetto di De Andrè sembrava inattuale?
I giovani in quell’epoca sono i protagonisti. Hanno delle ambizioni. Vogliono dire la loro in un mondo che non comprendono più. C’è una grande spinta sociale e politica per trasformare la società. La voglia di cambiamento non è retorica. La buona Novella è inattuale perché in quel contesto parla di Gesù Cristo. Gli amici lo contestano. La prospettiva era rovesciare il clima autoritario diffuso e aprire nuove strade politiche, mentre De Andrè si rifugerebbe nel recuperare una figura apparentemente inattuale come il giovane nazareno di 2 mila anni prima. De Andrè, invece, era convinto, in questo modo, di intercettare le istanze di cambiamento perché Gesù, al di là delle convinzioni personali, è comunque considerato il più grande rivoluzionario della storia. E recupera, inconsapevolmente, le dinamiche del post Concilio in termini di trasformazioni ecclesiali.
Tra le maggiori novità dell’album c’è il protagonismo della donna?
Maria nei Vangeli compare poco. De Andrè gli dà grande spazio: è il punto di riferimento. Anche altre donne, le madri dei due ladroni crocifissi, Tito e Dimaco. È una novità, segno di una sensibilità artistica e culturale che gli farà produrre nel suo canzoniere pezzi straordinari come La canzone di Marinella.
Si ispira ai Vangeli apocrifi. Che Gesù emerge?
La prima novità è che emerge un Gesù uomo. Nel 1970 l’idea che Gesù sia veramente uomo è affermata nel Credo che si recita durante l’Eucaristia, è un’idea condivisa pacificamente, ma non si approfondisce in maniera adeguata e non se ne percepisce tutta la portata.
I versi che più ama?
Il Testamento di Tito è il cuore del disco. È un pezzo di invenzione creativa, non ispirato ai Vangeli apocrifi. È un manifesto di etica corsara che rovescia l’interpretazione piccolo borghese dei Dieci comandamenti per uscire dalle convenzioni e dalle banalità.
Come mai un teologo come lei è interessato alla musica leggera?
La musica per me è una passione. Tramite la musica possono passare dei messaggi positivi che fanno riflettere anche nell’ambito della religione e della teologia. La teologia pop è ormai abbastanza diffusa. Gruppi e cantautori di oggi producono germi di riflessione. Non è una mossa furba, è quello che Paolo VI auspicava quando parlava del divorzio tra arte e Chiesa. La musica, come le arti figurative e la letteratura, vanno prese sul serio e utilizzate con molto rispetto. Non ipotizzo nel libro, infatti, un De Andrè cattolico. È importante che ognuno abbia la sua storia e sensibilità. Non lo utilizziamo in chiave apologetica.
Un sacerdote ha ispirato De Andrè?
È l’aspetto innovativo del libro. Don Carlo Scaciga, un prete di Novara, ci ha raccontato che lui e don Donato Paracchini gli hanno parlato e regalato i Vangeli apocrifi. De Andrè, in realtà, voleva lavorare sui canti popolari della bergamasca su Gesù. Furono i due preti che lo avevano invitato a parlare ai loro studenti a indirizzarlo ad avere come fonte i Vangeli apocrifi. De Andrè non li conosceva, ma accettò la proposta: aveva abbandonato la pratica religiosa, ma non aveva mai tralasciato relazioni con figure come don Andrea Gallo che ha sempre sentito vicini al suo modo di pensare.
In che senso La Buona Novella è un testo evangelico?
Gesù nei testi del disco non parla, ma tutto ruota intorno a lui. È un testo evangelico nel senso che prende sul serio alcune dinamiche del Vangelo come la necessità della trasformazione sociale, di cambiare i meccanismi del potere, di rovesciare il collegamento tra potere politico e religioso. Gesù viene messo in croce anche per la collaborazione del potere religioso, perché va a scalfire un volto di Dio che non è in linea con quello che predicano. Altro filo rosso della produzione di De Andrè è la sua attenzione per gli ultimi e i sofferenti, sin dalle sue prime canzoni ambientate nel cuore della Genova dei disgraziati, dei dimenticati, delle prostitute. Una sensibilità oggi diremmo verso la Chiesa in uscita, verso gli altri, dove l’unica cosa che conta è il primato dell’altro, del povero, della «carne di Cristo», direbbe Bergoglio. Gira tutto intorno all’umanità di Gesù e c’è ancora tanta strada da fare.