Ddl Zan, il grande imbarazzo
Questo che leggete non è un articolo di etica, non sono abbastanza attrezzato per farlo, non è il mio mestiere quello di teologo morale. E non sono nemmeno un filosofo morale, come Weil o Jankélévitch. E non è nemmeno l’elzeviro di una grande firma del giornalismo, non lo sono. Metto le mani avanti perché la materia è scivolosissima, comunque parli sbagli. Il mio è semplicemente un appunto di un cattolico che preferisce dirsi cristiano. Sono stato preso dentro una discussione dai toni accesi tra amici, sulla proposta di legge Zan. «Cosa dice Zan-zucchi a proposito di Zan?», mi ha attaccato un amico tutt’altro che cattolico, schietto, autentico, acuto. «Che dici delle ingerenze vaticane nelle nostre vite private e nelle nostre leggi? Perché mai un barbuto prete come Gallagher dovrebbe dirci che cosa scrivere nelle leggi dello Stato italiano?». Ho taciuto, lo confesso, chiedendo un po’ di tempo per pensarci. L’aggressione verbale mi ha disturbato, ma ho messo la sordina al disappunto, pensando a quante volte i cattolici, noi cattolici, abbiamo aggredito verbalmente chi non la pensava come noi, da una posizione comunque di maggioranza. Oggi i cattolici, noi cattolici, non lo siamo più; Fedez, pur nella sua povertà culturale, raccoglie più consensi dei nostri vescovi. Noi cristiani ormai siamo una minoranza, nulla da fare. È questo un primo punto fermo.
Da cristiano può darmi fastidio non essere più maggioranza, ma ciò evidentemente mi obbliga ad argomentare di più la mia posizione sul Ddl Zan. In questo mi aiutano i tre anni trascorsi in Libano: i cattolici romani sono lì un’esigua minoranza, mentre i cristiani sono di più, una corposa minoranza, ma comunque una minoranza. In Libano non puoi pretendere che il tuo credo possa influenzare le leggi dello Stato a tuo piacimento. Tocca sempre convincere e mediare. Oggi in Italia siamo nella stessa situazione. Secondo punto fermo.
Potrei aprire una crociata – lo status di perseguitato è al top della lista dei beati del Vangelo −, ma non posso farlo perché la parola di Gesù − «perseguitato in nome mio» − mi pone un ulteriore imbarazzo. In nome mio, cioè nella coerenza di una vita che cerca di essere cristiana. Sì, sono dalla parte dei rifugiati, dei poveri, dei terremotati. Ma sarebbe meschino usare una tale argomentazione, Cristo lo avrebbe fatto? No. Terzo punto fermo.
Prendo un caffè con un prete in un bar nei pressi del Vaticano. Ha il colletto romano. Non ho fatto caso che ai tavolini del bar sono sedute un po’ di coppie che partecipano al gay pride romano di questo week-end. Tutti gentilissimi, ma quel colletto pesa, tutti ci guardano. Mi vergogno di conversare con un prete? No, ci mancherebbe. Anzi, mi viene da difenderlo quando una coppia di francesi, pensando di non essere capiti, lo accusa di essere responsabile delle fosse comuni canadesi di recente scoperte: bimbi “indigeni” violentati e fatti sparire da preti locali. L’ondata arriva, forse uno tsunami. Non risparmia nessuno. Debbo difendere le nostre posizioni, le nostre verità? Sono le mie posizioni, quelle di Gallagher? Cade anche su di me l’eredità dei preti pedofili canadesi, anche se sostengo gli operai della Rwm che, nell’iglesiente, lottano perché la loro azienda non spedisca armi ai sauditi. Quarto punto fermo.
Mi torna ancora in mente la sfida lanciata da Gesù Cristo: «Beati i perseguitati in nome mio». Non me la sento di dirmi “perseguitato”. Non voglio rinnegare certi principi che considero umani di Santa Romana Chiesa, ma nello stesso tempo non so se tutti quei principi sono veramente evangelici o dettati da una tradizione culturale particolare. Bisogna sottoporre la nostra dottrina a una seria verifica. Il mio amico rilancia: «Hai visto che è successo a Monaco per la partita Germania-Ungheria?». E ammicca, cercando di prendermi in fallo. «Bella partita», rispondo. «E il tuo amico Orban?». Oddio, amico di Orban non direi, anzi sono stato accusato da alcuni suoi partigiani di essermi venduto alla propaganda liberista e libertaria, che elimina ogni traccia di cristianesimo nelle nostre società. Quinto punto fermo.
Una settimana di passione, dunque. La comunità cristiana – se vogliamo cattolico-cristiana, non solo cattolico-cattolica − è di fronte a un bivio non di poco conto: o schierarsi in battaglia contro il Ddl Zan, in una riedizione delle crociate, oppure intraprendere un cammino di conversione al Cristo, dove la prima delle verità è la carità, e così pure l’ultima. Il che vuol dire continuare ad amare e servire il Signore Iddio «con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutte le forze», testimoniando il Cristo nella sua radicalità evangelica, lavorando per i bimbi di Gaza e sostenendo le donne che non vogliono abortire o che hanno abortito e ne soffrono, così come combattendo perché i migranti non muoiano più nella rotta mediterranea e cercando nel contempo di educare a una vera vita di famiglia. Non sembri una contraddizione: l’amore di Cristo è tale da contenere tutte queste spinte: cristiane e umane umanissime. I “valori irrinunciabili”, tutti quanti, sono dalla parte della vita, non solo per difenderla al suo inizio e alla sua fine (cioè aborto ed eutanasia), ma anche in tutto ciò che c’è tra l’inizio e la fine. E ciò va fatto argomentando e testimoniando. Testimoniando e argomentando. Un ultimo punto fermo.
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