I dazi di Trump e gli equilibri mondiali
Vi ricordate la favola di Esopo sul lupo che, bevendo dal fiume a monte dell’agnellino, accusava quest’ultimo di sporcargli l’acqua? Non vi tornava in mente quando Donald Trump tuonava contro la Cina, colpevole di “stuprare” l’America e i suoi lavoratori con l’invadenza delle sue esportazioni? Non tanto perché la Cina, principale destinatario degli strali del presidente americano, sia un indifeso agnellino, quanto piuttosto perché a lamentarsi delle presunte ingiustizie del commercio internazionale era un candidato presidente del Paese egemone nell’attuale sistema economico mondiale, un Paese che da tale sistema – come vedremo anche più sotto – ottiene enormi benefici.
Trump, nel frattempo diventato presidente, di benefici ne vorrebbe ancora di più e sta iniziando a mettere in pratica le sue minacce, decretando dazi doganali per ostacolare le importazioni di acciaio e di alluminio. Si tenga presente che oggi il tasso di disoccupazione USA è appena superiore al 4%, un livello che molti considerano un minimo fisiologico; un valore che in Italia non riusciamo neanche ad immaginare, dato che alla fine di un anno particolarmente buono per l’occupazione siamo riusciti a scendere al di sotto dell’11%.
Ciò non significa che tutti i lavoratori americani stiano bene: molti posti di lavoro sono del genere “Mac(Donald)-job” (mansioni non qualificate e poco pagate nei servizi di ristorazione, pulizia…); e poi, in alcune zone dolorosamente colpite dalla deindustrializzazione, disoccupazione e sottoccupazione colpiscono duramente. Con tutto ciò, la condizione dell’economia USA, con il Prodotto Interno Lordo in crescita da 8 anni a tassi superiori al 2% e la borsa ai massimi, è quanto di più lontano si possa immaginare da un’emergenza disperata, quella che potrebbe giustificare il ricorso a misure eccezionali e dirompenti. Eppure Trump le vuole prendere, con il risultato certo di creare problemi ai Paesi partner, ma anche – c’è ragione di credere – di dare la zappa sui piedi alla sua America.
La prima zappata sui piedi è politica. Il primato di un’America portabandiera degli ideali di libertà e di benessere, da perseguire insieme alla comunità delle nazioni anche attraverso gli scambi economici, lo si può accettare (e lo abbiamo accettato) tutto sommato volentieri. Al contrario, quello di una trumpiana “America first” che rivendica il diritto di accumulare vantaggi, strappandoli in malo modo ai Paesi partner, piace molto molto di meno a chiunque non sia cittadino degli Stati Uniti. E alla lunga gli stati d’animo finiscono per avere un peso sugli avvenimenti.
E poi c’è l’economia. Nel 2017 il saldo del commercio degli USA con il resto del mondo è stato negativo per un ammontare di 566 miliardi di dollari, pari a poco meno del 3% del PIL statunitense, ed è stato dovuto per circa due terzi al commercio con la Cina. Tale squilibrio dura da molti anni e questo giustifica che gli USA se ne preoccupino. Ma il fatto che l’economia statunitense compri dall’estero più di quanto vende all’estero è solo una faccia di uno squilibrio che non si può comprendere pienamente se si guarda solo all’import-export, magari imprecando contro quei maledetti stranieri che in questo modo ci rubano il lavoro.
Un’altra faccia della medaglia – ce lo dicono asetticamente le definizioni contabili – è il corrispondente squilibrio tra investimento e risparmio: negli USA di oggi è quest’ultimo ad essere più basso, e la differenza è proprio dell’ordine del 3% del prodotto interno lordo. A ciò contribuisce il comportamento delle famiglie, che sono tornate a risparmiare meno del 4% del loro reddito, come facevano prima della crisi del 2008 (in Italia siamo all’8%).
Quindi un’altra interpretazione del suddetto squilibrio, non meno fondata di quella che se la prende con gli esportatori stranieri, è che gli americani (famiglie, imprese e pubblica amministrazione nel loro complesso) risparmiano troppo poco (antico difetto), ovvero investono troppo (fenomeno tipico delle situazioni di boom, come quella che l’America sta vivendo).
Ma questa strana medaglia ha anche una terza faccia, che pure discende direttamente dalla logica contabile: gli stranieri stanno concedendo più crediti al sistema finanziario americano di quanto gli americani non stiano facendo agli stranieri, come a dire – ma questo Trump non lo dirà mai – che lo squilibrio magari si potrebbe curare legando un po’ le mani ai finanzieri di Wall Street, abilissimi nel confezionare sempre nuovi titoli da vendere a banche e risparmiatori di tutto il mondo; oppure anche – questa è ancora più grossa! – togliendo al dollaro il ruolo privilegiato di moneta mondiale (oggi, mentre uno straniero che venisse pagato in, poniamo, kune croate e non dovesse comprare beni croati correrebbe subito a farsele cambiare nella sua moneta, i dollari in eccesso vengono invece tenuti volentieri a riserva in gran quantità da soggetti pubblici e privati di tutto il mondo, concedendo così, senza accorgersene, credito agli USA).
Come dicevo sopra, se si guardano bene le cose nel loro insieme le lamentele del lupo Donald non appaiono così commoventi. Ma veniamo agli effetti di quei dazi doganali sull’acciaio e sull’alluminio. Oltre che alla finanza pubblica americana che li incassa, quei dazi faranno comodo a molti soggetti; ai produttori di acciaio e alluminio americano, che potranno vendere di più e a prezzi più remunerativi; ai lavoratori che vivono vicino alle acciaierie americane abbandonate, che saranno riavviate e rinnovate, creando occupazione meglio pagata; a negozianti, operatori immobiliari, costruttori di case, ristoratori, ecc… di quei territori, che vedranno migliorare il giro di affari, e così via. Anche le amministrazioni locali raccoglieranno più tasse e potranno dare servizi migliori.
Chiediamoci, però: quanti saranno i beneficiari di tutto ciò? Cinque o dieci milioni di persone? Esageriamo: venticinque milioni! Ma per gli altri 300 milioni di americani quei dazi significano solo prezzi più alti per un’infinità di prodotti, tutti quelli che usano, direttamente o indirettamente, acciaio o alluminio. E per le industrie che utilizzano grandi quantità di questi metalli ci sarà un aumento di costi, che le renderà meno competitive rispetto ai produttori esteri, i quali quindi potranno esportare di più verso gli USA (così magari Trump penserà a mettere altri dazi).
Fin qui non abbiamo ancora parlato del resto del mondo, dove i posti di lavoro nelle industrie dell’acciaio e dell’alluminio, invece, si perderanno. La risposta che possiamo aspettarci – se ne è già parlato – sono dazi imposti da altri Paesi su varie categorie di beni esportati dagli USA, ad esempio motocicli (e tutti pensiamo alle famose Harley Davidson). A questo punto magari verranno ulteriori dazi americani, e così via. Al di là delle scelte di Trump (in una situazione come quella degli USA “le guerre commerciali sono giuste e facili da vincere”), questa strada, quando è stata imboccata, non ha portato nulla di bene, né per l’economia dei Paesi interessati, né tanto meno per le loro relazioni politiche.
Le questioni commerciali sono molto complesse (i soli accordi commerciali tra gruppi di Paesi vicini oggi in vigore sono oltre 400 e ciascuno contiene centinaia di clausole) e difficilmente si riuscirà a trovare un assetto più desiderabile gettando impulsivamente manciate di sabbia nelle ruote delle controparti per ostacolarne il cammino. Purtroppo oggi la politica americana, e non solo quella, sembra rivolgersi più del solito alla pancia e all’orgoglio degli elettori. Pancia e orgoglio già promettono poco di buono in una riunione di famiglia in cui ci siano in sospeso delle delicate questioni ereditarie. Figuriamoci nell’arena mondiale, dove invece di pugni e schiaffi abbiamo armi nucleari e dove urgono più che mai concordia e collaborazione perché ci sono questioni ancora più importanti da affrontare: la deforestazione, l’inquinamento delle acque, il riscaldamento del clima, gli squilibri economici e demografici.
A tutte le agenzie educative: “Avanti tutta, non c’è tempo da perdere!”.