David Mamet a Roma: «L’attore deve metterci l’anima, ma permettere che sia il pubblico a capire»

Il regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e saggista, Premio Pulitzer nel 1984 per l’opera teatrale Glengarry Glen Ross (Americani), fra l’altro in scena all’Eliseo proprio in questi giorni e fino al 30 ottobre, incontra nella Capitale ragazzi e scolaresche che si avviano alle discipline dello spettacolo
David Mamet alla Festa del Cinema di Roma

«Se da ragazzo, a New York, mentre facevo il barista e non avevo neanche i soldi per pagare il biglietto della metropolitana, qualcuno mi avesse detto che 40 anni dopo avrei diretto il più bel teatro d’Italia, portato in scena 3 testi di David Mamet, e lo avrei avuto come ospite, gli avrei detto che era semplicemente pazzo. E per questo ai ragazzi in sala, e siete tanti, dico: dovete pensare che tutto è possibile. Non mettete limite ai vostri sogni». Esordisce così Luca Barbareschi, direttore artistico del Teatro Eliseo di Roma, nel dare il benvenuto a David Mamet, regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e saggista, Premio Pulitzer nel 1984 per l’opera teatrale Glengarry Glen Ross (Americani), fra l’altro in scena all’Eliseo proprio in questi giorni e fino al 30 ottobre.

 

Mamet si trova nella capitale per la Festa del Cinema (13-23 ottobre), dove è stato protagonista di un “Incontro ravvicinato”, il 18 ottobre, mentre il 19 ottobre ha incontrato centinaia di studenti dell’Università La Sapienza, che si avviano alle discipline dello spettacolo. Presente all’evento anche il direttore della Festa del Cinema, Antonio Monda. 

 

«Ho iniziato da bambino come attore a Chicago e a 20 anni ho fondato una compagnia teatrale in un edificio abbandonato – racconta Mamet –. Questo teatro invece è veramente una casa per gli artisti, un sogno che si è realizzato e per il quale devo fare i complimenti a Luca Barbareschi», che ha il merito di aver fatto conoscere l’autore americano in Italia, traducendone i testi e mettendo in scena le sue opere. 

 

Nonostante i ripetuti e incalzanti tentativi dei giornalisti presenti di far parlare Mamet sulle prossime elezioni presidenziali, il regista preferisce rimanere sul tema dello spettacolo e dell’intrattenimento: «Anche un dentista può avere le sue opinioni politiche – afferma –, ma non è il caso di chiedergliele mentre usa il trapano. Allo stesso modo l’artista: è pagato per divertire il pubblico. Se ho scritto una commedia e nessuno ride, ho fallito. Se scrivo una scena drammatica e nessuno piange, vuol dire che non ho commosso… Cerco di identificare i bisogni del pubblico e di soddisfarli». Ai giovani attori consiglia: «Pronunciate le battute in modo semplice e intelligibile. L’attore deve metterci l’anima e credere in quello che fa e dice, avere il coraggio di farlo. Deve poi permettere che sia il pubblico a capire [le intenzioni dell’autore, n.d.r]».

 

Fioccano anche le domande degli studenti: come adattare le sue commedie in contesti culturali diversi, quale tra le sue opere è quella preferita, il segreto per scrivere un buon dialogo, il valore del silenzio come forza comunicativa… Gli elementi di quello che poi è diventato il “Mamet speak” sono quelli che avevano colpito un giovane Barbareschi a New York: «Non avevo strumenti per giudicare quello che vedevo, se non il mio cuore, quando per la prima volta ho incrociato Mamet – racconta –. Una delle sue prime opere che vidi a Broadway fu American Buffalo. E lì ho deciso che per me lui era un fuoriclasse, un grandissimo scrittore. Per me era come Mozart, perché aveva una partitura di scrittura molto precisa. E l’ho capito a mie spese quando ho cominciato a tradurre, perché quando lui scriveva pausa, mezza pausa, oppure “What? What what…?”, mi dicevo: forse qui tagliamo! Poi ho capito che c’era un sottotesto, e che c’era un mondo dietro quella pausa, quella mezza pausa, quel silenzio. Ero davanti a un materiale straordinario, una scrittura completamente nuova, e anche il turpiloquio che sembrava la cosa più evidente, era solo una metafora bellissima e non c’era niente di volgare. Da lì l’ho chiamato, gli ho telefonato, lui è stato molto gentile, mi ha detto “beviamoci un caffè…”».

 

Una passione che unisce il pubblico – che si fida delle proprie sensazioni e segue la proposta dell’artista –, chi lo ha scoperto, rilanciandolo in Italia, e il personaggio poliedrico, che nelle tante vesti con cui esprime la sua carica comunicativa, riesce ancora oggi ad affascinare, attrarre e parlare a generazioni diverse.

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