Davanti alla riforma
La legge delega per la riforma della scuola, presentata dal ministro Letizia Moratti, ha avuto l’approvazione del Consiglio dei ministri il primo di febbraio. Questo passo iniziale è stato preceduto da un approfondito studio da parte di un “Gruppo ristretto ministeriale” presieduto dal prof. Giuseppe Bertagna. Un serio lavoro di riflessione e di scavo sul significato e i compiti della scuola, che il testo presentato dalla Moratti al Consiglio dei ministri non poteva riportare, ma al quale si ispira largamente. Una riflessione che, an- che se, naturalmente, non è condivisa da tutti, ha la qualità per fare da base per il confronto che si svilupperà lungo la legislatura. Quali sono i punti fondamentali della proposta di riforma? Secondo Bertagna, il primo elemento caratterizzante il testo Moratti, e direttamente discendente dai lavori del Gruppo ristretto, è il superamento di “un’ottica statalistica e centralistica”, per chiamare invece alla collaborazione paritaria con lo stato altri soggetti, quali gli enti locali, le forze sociali, le iniziative private. Altro punto qualificante della proposta è lo sforzo di superare la divisione tra un percorso considerato di serie A (i licei) e quello di serie B (gli istituti professionali): alle qualifiche professionali, rinvigorite sul piano educativo e culturale, spiega Bertagna, “devono poter accedere i giovani che decidono un proprio progetto di vita, dignitoso tanto quanto quello che prevede lo studio del latino e del greco”. Per creare più uguaglianza, sostiene inoltre il professore, non si deve dare a tutti lo stesso tipo di scuola, ma mettere in grado tutti di raggiungere gli stessi risultati, “consentendo a ciascuno di scegliere, nella scuola dell’autonomia, i percorsi più adatti alle proprie esigenze”. Espressione di questa attenzione alla persona dello studente, e della tendenza a considerare in maniera unitaria tutto il curriculum scolastico, vuol essere la proposta della figura di un docente-tutor di classe, che ha il compito di valutare gli apprendimenti degli studenti, ma anche di accompagnarli nel loro percorso e di fornire un sostegno ed un orientamento continui. Come si vede, si tratta di orientamenti generali in gran parte condivisibili. Il problema è che, attualmente, non possiamo sapere se e come verranno applicati. Con l’aiuto di alcuni esperti, possiamo però cercare di dare delle indicazioni su come ci aspetteremmo di vederli in atto. Cominciamo col problema del rapporto tra aree forti e deboli del paese, nelle quali la stessa riforma potrebbe essere recepita in modi molto diversi. Nella proposta Moratti sono previsti collegamenti con l’università che non erano mai stati così presenti; ed anche aperture alle realtà imprenditoriali e sociali altrettanto importanti e che qualificano positivamente il progetto. Ma proprio qui si apre il problema. In una regione ricca, con centri di produzione forti e ben distribuiti sul territorio, e con una molteplicità di sedi universitarie, questa collaborazione con la scuola può essere realizzata. Invece, in una regione povera di risorse produttive, associative e accademiche, come si potrà realizzare questi intenti? C’è chi risponde: non possiamo stare ad aspettare quelli che non si muovono, ma dobbiamo permettere di migliorare a coloro che hanno le risorse per farlo. Vero; ma è anche vero che bisogna affrontare il problema di chi queste risorse non le possiede, e che diventerà sempre più povero nei confronti di coloro che miglioreranno ulteriormente: chi non ha le risorse, infatti, ha lo stesso diritto degli altri. Anche la competizione tra scuole – da molti invocata per aumentarne l’efficienza – produce un miglioramento nei servizi solo a patto che esistano soggetti in grado di competere. Ma certamente non si creerà competizione di eccellenza là dove i problemi dominanti sono il degrado sociale e gli abbandoni scolastici che lo accompagnano. È proprio nelle regioni più deboli di risorse private che lo stato e le regioni dovrebbero impegnarsi in uno sforzo aggiuntivo. Applicare la sussidiarietà, in questo caso, significa portare un aiuto al soggetto più debole. “Il sistema previsto dalla riforma – spiega Enrico Danili, dirigente scolastico del “Primo Levi” di Seregno, attualmente comandato presso l’Ufficio scolastico della Regione Lombardia – se proviamo a pensarlo nel Sud, pone delle difficoltà. Nelle regioni del Nord c’è un forte sviluppo del sistema di formazione professionale. È condotto dalle regioni o delegato alle province, ed è sorretto da adeguata cultura e da un contesto professionale e produttivo favorevole. Nel Sud invece, le cose sono molto più difficili: le esperienze attuali sono poche e difficoltose. Questa preoccupazione in Berlinguer esisteva “. “La regionalizzazione – prosegue Ilaria Pedrini, insegnante – è un argomento molto importante oggi, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, dato che si va verso un sistema fortemente autonomistico. Non si sono date, però, chiare risposte sui meccanismi di perequazione tra regione e regione. Il governo attuale, finora, non ha mostrato di possedere la cultura politica dell’equità territoriale”. Ma neppure la sinistra, su questo punto, è esente da difetti, a dimostrazione che una buona riforma non può essere realizzata in conformità ai presupposti ideologici di una parte o dell’altra. “Dovremmo impegnarci particolarmente in questo settore – prosegue la Pedrini -, non per ghettizzare questi giovani, ma per sfruttare la loro esigenza al fine di elevare, insieme alle loro abilità tecniche, la loro cultura e la loro apertura. E non senza l’apporto di chi, per tradizione e per competenza, agisce da sempre in questo campo: se alcuni ordini religiosi si sono occupati dei “minimi” facendo scuole professionali per loro, qualcosa deve voler dire anche per la cultura di sinistra”. Uno altro dei punti fondamentali sottolineati da Bertagna riguarda il ruolo importante degli enti locali, che dovrebbe, a nostro avviso, essere inteso in modo da valorizzare, e non mortificare, l’autonomia delle scuole, sulla quale l’articolato della Moratti non dà indicazioni sufficienti a farsi un’idea. Ma in nessun caso la “competenza locale” deve significare una inaccettabile subordinazione dell’amministrazione scolastica alla politica. Che le regioni, le province e i comuni abbiano la possibilità, regolata, di contribuire alle scelte didattiche e anche, in parte, di indirizzarle, non è sbagliato, perché le scuole devono interagire con il territorio, e su questo punto esistono già delle esperienze positive. L’importante è rispettare il mestiere di chi dirige una scuola e di chi vi insegna. Secondo Danili, “una concreta possibilità, per le scuole, di assolvere all’obbligo di fornire un’offerta formativa adeguata, valorizzando al contempo la propria autonomia, è data dal mettersi insieme per organizzare dei corsi, utilizzando le loro diverse competenze. Faccio un esempio che si riferisce ad una esperienza in atto. Se un istituto d’arte non ha nel proprio organico il docente esperto per un corso di vetreria, può attingere al docente di un’altra scuola, e fornire invece, con le proprie forze, un corso di tecnica cinematografica, del quale beneficino anche gli studenti dell’altra scuola. Sulla base della propria autonomia, le scuole potrebbero collaborare scambiandosi le competenze; moltiplicherebbero, così, i corsi, l’offerta formativa utile al loro territorio”. Da sottolineare che, in questa prospettiva, emerge un’idea di “competizione” tra scuole sostanzialmente collaborativa, molto diversa da quella di un mercato selvaggio nel settore scolastico: “Queste intese tra scuole, statali e paritarie, in collaborazione con gli assessorati all’istruzione, evitano che si scateni una competizione inutile tra istituti che, alla fine, si sforzano non di differenziarsi tra loro, ma di offrire le stesse cose che offrono gli altri, per non rimanere indietro e perdere “clienti”. Il preside è al servizio non solo della sua scuola, ma dell’offerta formativa di tutto il territorio. Come è previsto nel contratto in corso di definizione, non potrà fermarsi nella stessa scuola per più di sette anni. Non può dunque assumere la mentalità dell’imprenditore – come vorrebbe qualcuno – che promuove esclusivamente la propria azienda cercando di sbaragliare gli avversari; al contrario, dovrebbe sviluppare la capacità di mettersi insieme alle altre scuole, statali e paritarie, per dare il migliore servizio agli studenti e alle loro famiglie. Questa prospettiva mette insieme tutti, ciascuno secondo la propria tradizione e competenza, finalizzando le diverse risorse formative ad un obiettivo unitario, senza indugiare in inutili pregiudizi e dannose competizioni”. La proposta Moratti, nel suo insieme, dà l’impressione di puntare ad una maggiore “serietà” della scuola. Nelle superiori, ad esempio, non si esclude che alla fine di ogni biennio, quando il lavoro dello studente viene valutato, si possa procedere alla bocciatura nel caso il giovane non avesse recuperato i “debiti” nelle varie materie. Non si ricava, dall’articolato approvato dal Consiglio dei ministri, l’idea che la riforma contenga una volontà repressiva, come qualcuno ha sostenuto: nello studio del gruppo ristretto, ad esempio, la reintroduzione del voto di condotta è motivata, al contrario, dall’opportunità, nella valutazione di una persona, di non tener conto soltanto della dimensione razionale, della quantità di cose che lo studente ha imparato, ma dell’insieme della sua personalità. Concediamo dunque, a questo tentativo, la stessa apertura di credito con la quale abbiamo guardato ai primi passi della riforma Berlinguer, impegnandoci a seguirla passo per passo nel corso della legislatura, e accompagnandola in maniera critica, ma costruttiva, alla luce delle nostre esigenze ed esperienze di studenti, insegnati, genitori, cittadini. I cicli scolastici La carriera studentesca secondo la proposta del ministro Moratti. Scuola dell’infanzia: accoglie i bambini dai 3 ai 6 anni, ma si potrà iniziarla anche a 2 anni e mezzo Scuola elementare e media: rimane invariata la durata di 5 anni per le elementari e di 3 per le medie inferiori. Già in prima elementare si comincerà a studiare una lingua europea; in prima media se ne aggiungerà una seconda. È possibile anticipare l’ingresso alle elementari, consentito, per ora, ai bambini che compiranno i 6 anni entro il 28 febbraio dell’anno successivo. Se tutto va bene, gli “anticipatori” usciranno dal liceo a 18 anni, in linea con altri paesi europei. Scuola superiore: il ragazzo può scegliere tra due percorsi: il liceo o l’istruzione professionale. Licei. Oltre agli attuali classico, scientifico, artistico e linguistico, nascono l’economico, il tecnologico, il musicale, delle scienze umane. I licei sono divisi in due periodi biennali, al termine di ognuno dei quali viene effettuata una valutazione, anche in ordine ai debiti e ai crediti. Segue l’anno finale che si conclude con l’esame di maturità. È previsto il passaggio da un liceo all’altro, e all’istruzione professionale. Istruzione professionale. La prima qualifica si ottiene dopo tre anni; con il quarto anno si riceve una ulteriore qualifica, e si ha diritto di accedere alla “Formazione tecnica superiore”. Chi volesse andare all’università, dovrebbe frequentare in quinto anno e il relativo esame di maturità. È consentito il passaggio dall’istruzione professionale ai licei; tale passaggio – come anche quello opposto – è aiutato dalle istituzioni scolastiche. Organizzarsi sì Ma per educare Intervista con Michele De Beni, dirigente scolastico, docente di Docimologia – scienza degli esami e della valutazione – all’Università di Verona Prof. De Beni, che cosa pensa della suddivisione delle superiori in due canali, i licei e le scuole professionali? “È una scelta che lo studente deve compiere a 13 anni. Optare, già a quest’età, tra liceo e istruzione professionale non è certo facile. È vero che alle superiori sono consentiti eventuali passaggi tra licei, e tra licei e istruzione professionale, però, era preferibile creare una specie di “biennio ponte” comune a tutti (dai 13 ai 14 anni), come raccordo tra l’ultimo anno della scuola media e il primo delle superiori. In questo biennio, si sarebbero potute più utilmente rafforzare e verificare le cosiddette “abilità di base”, promovendo percorsi differenziati, anche in piccoli gruppi, in modo da sviluppare al massimo le potenzialità e offrire una maggior opportunità all’orientamento personale: è una via di mezzo, che mi sembra saggia, tra il biennio “uguale per tutti” di Berlinguer e la formula attuale della Moratti. Certo, ciò richiederebbe di investire molto di più, e subito, nella formazione dei docenti, ma anche di uscire dal rigido sistema-classe, per dar maggior spazio al rapporto educativo, al colloquio, a forme di tuttoraggio continuo”. Quali sono i punti dolenti della scuola italiana con i quali la riforma Moratti si dovrà confrontare? “Uno dei più importanti è la scarsa preparazione degli studenti e il loro ancor troppo basso livello di scolarità, ma soprattutto la difficoltà di garantire competenze e standard formativi confrontabili. “Resta, però, il nodo della preparazione professionale dei docenti, che in fondo è il problema centrale di ogni tentativo di cambiamento. Per fare ciò, non serve solo prevedere per i futuri docenti una laurea specialistica o una specializzazione con relativo tirocinio (come ipotizza il disegno di legge), ma risolvere lo spinoso problema dei loro profili professionali, degli strumenti d’incentivazione, della verifica sistematica delle loro competenze. Un punto non certamente facile, ma senza il quale ogni innovazione potrebbe tramutarsi in mero cambio di facciata”. Un’antropologia più completa Intervista a Roberto Zappalà. Responsabile scolastico dell’Istituto Gonzaga di Milano. Prof. Zappalà, lei è responsabile di un Istituto che accoglie i bambini dalla materna e li accompagna fino alla maturità: come valuta la nuova articolazione dei cicli scolastici proposta dal ministro Moratti? “L’architettura prevista dalla nuova riforma lascia l’attuale suddivisione tra i cinque anni delle elementari e i tre delle medie inferiori. La struttura prevista da Berlinguer, che accorpava elementari e medie inferiori in sette anni, dava delle difficoltà. È stata rivalutata la scuola media inferiore, che nel precedente progetto spariva. Prima, lo spazio della pre-adolescenza veniva soppresso: questa scansione accompagna meglio il cammino di crescita del ragazzo”. La Moratti dà la possibilità di mandare in prima elementare i bambini di cinque anni e mezzo. Col diffondersi di una mentalità sempre più competitiva, non si correrà il rischio che molti genitori sforzino i loro figli a cominciare la scuola anche se non sono pronti? “Da noi, al Gonzaga, è sempre stato possibile. Ho costatato che non costituisce un grande trauma: chi anticipa se la cava bene. Se lo si volesse rendere obbligatorio, invece, penso che non sarebbe una cosa positiva, perché non tutti i bimbi, alla stessa età, hanno le medesime attitudini o possibilità di iniziare una formazione scolastica”. In quali punti si notano le maggiori differenze tra la riforma Moratti e quella Berlinguer, per quanto riguarda il progetto culturale? “Con la proposta di Berlinguer si aveva la sensazione di andare verso un tipo di formazione fortemente legato ai bisogni del mercato del lavoro; per questo venivano molto sottolineati gli aspetti della formazione che davano una competenza professionale. Con la Moratti, a questa esigenza sembra che si affianchi la preoccupazione di promuovere una formazione ai valori.All’art. 2 del progetto, ad esempio, si legge: “Sono favorite la formazione spirituale e morale, lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea”. Sono princìpi che prima non c’erano: si fece fatica, addirittura, ad introdurre il concetto di persona e far dichiarare che tutto il progetto di riforma doveva essere calibrato intorno alla persona. Nella proposta Moratti, invece, questo è stato ben recepito. L’impressione è che, sotto il progetto Moratti, ci sia un’antropologia, una visione dell’uomo sicuramente più ampia, più integrale, rispetto a quella che si intravedeva nel disegno precedente. Ma bisogna sottolineare che, se le dichiarazioni di intenti e i princìpi di riferimento sono incoraggianti, dobbiamo attendere che si precisino i contenuti della riforma per controllare se, e come, tutto questo troverà applicazione”.