Dare voce alla follia
A volte mi chiedo se avessi detto “no”, cosa (non) sarebbe successo. Era il 2007, quando un’amica della Comunità di Sant’Egidio mi chiedeva di trasformare i loro diari di un’esperienza di amicizia con i pazienti di una struttura psichiatrica in un romanzo. Avrei potuto rispondere: non ne sono capace, non ho mai scritto un romanzo e poi non ne so niente di disagio mentale, di follia. Invece ho detto: va bene, ma non posso scrivere per conto terzi, voglio fare anche io un’esperienza, e studiare per essere all’altezza («scrivo per imparare qualcosa che non so», insegna Italo Calvino). Così, 14 anni fa ho iniziato a frequentare una struttura psichiatrica e a studiare la follia. Ad oggi non ho ancora smesso.
Non sarebbero successe molte cose importanti. Non avrei scoperto che il disagio mentale chiede innanzitutto ascolto, anche quando il suo linguaggio implode nel silenzio catatonico o esplode nel delirio: “l’ascolto gentile”, lo chiama il grande psichiatra Eugenio Borgna. Chiede di essere ascoltato e accolto, non necessariamente capito (da chi psichiatra non è, ma può provare a condividere il dolore altrui). Per farlo occorre superare paure, pregiudizi, stereotipi, che una certa narrazione della follia hanno instillato nella nostra testa e, peggio ancora, nell’inconscio collettivo (la stessa narrazione che ha permesso ai manicomi di esistere per secoli come luoghi di esclusione, false cure, torture).
Non avrei trovato amici che si sono fidati di me (come io mi sono fidato di loro), raccontandomi con una lingua originalissima, dolente e poetica, astratta e mistica (a volte muta), il loro mondo interiore di speranze e paure, simili a quelle di ognuno, solo più immaginifiche e spaventose, per via di una malattia inafferrabile. Non avrei ricevuto quadri, creazioni artistiche, poesie, fiori: doni che conservo gelosamente.
Non avrei scoperto che oltre all’ascolto, all’accoglienza, alla fiducia, si può offrire una cosa: la propria penna. Mi dicevano: scriviamo e io aprivo il portatile. Iniziavano a parlare, trascrivevo fedelmente, senza interpretare, correggere, abbellire. Ospitavo nella pagina emozioni, pensieri, invenzioni, poesie, silenzi. Solo molti anni dopo avrei appreso che si chiama “medicina narrativa”. L’iniziatrice, Rita Charon, a un certo punto della sua carriera di medico, ha capito che la letteratura le sarebbe stata di grande aiuto. Perché la parola letteraria (metaforica, creativa) può contribuire alla cura, dando voce alla malattia, permettendole di raccontarsi, soprattutto quando rende muti, incapaci di esprimersi: «Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi» (Shakespeare, Macbeth, Atto IV scena III).
Non avrei dedicato il mio lavoro universitario allo studio del rapporto tra letteratura e follia (più in generale tra letteratura e medicina). Ho studiato gli autori italiani che hanno dato volto e voce alla follia, ne ho fatto materia di un dottorato: dalle maschere di Pirandello ai romanzi manicomiali di Mario Tobino, dai diari e versi di Alda Merini ai monologhi di Ascanio Celestini, fino ai recenti romanzi di Simona Vinci e Daniele Mencarelli. Non ho ancora smesso, anzi, c’è sempre più da leggere: solo negli ultimi 6 anni sono stati pubblicati in Italia più di 20 narrazioni sul (soprattutto dal punto di vista del) disagio mentale. Questo è un fenomeno importante: si torna a parlare di follia, a darle voce, quasi a voler riscattare un debito di secoli di silenzio, indifferenza, stigma.
La letteratura sta operando una rivincita: ci mette in mano pagine che aprono – a volte con violenza, con dolore – il cuore e la testa, gettano luce su zone d’ombra, esorcizzando fantasmi che sono anche i nostri, mostrando un’umanità radiosa e una bellezza nascoste dalla malattia. Così facendo, colma un po’ alla volta quel “solco” (come lo chiamava Franco Basaglia, a cui dobbiamo la radicale riforma della psichiatria italiana, culminata nella chiusura dei manicomi) che divide i sani dai malati, i normali dai folli, privando questi ultimi del diritto a realizzare socialmente la loro esistenza, per quanto “enigmatica” sia (uso un attributo di Eugenio Borgna).
Infine, non avrei scritto un romanzo che mi ha segnato nel profondo. Ho impiegato 10 anni. Nel frattempo ho scritto altre cose: racconti, un romanzo la cui urgenza aveva preso il sopravvento, saggi sul rapporto tra letteratura, scienza e medicina; soprattutto ho attraversato una crisi esistenziale durata anni, che mi ha portato dalla fisica (questo studiavo prima di allora) alla letteratura, dalla vita in una comunità al matrimonio.
Ho vissuto in uno squilibrio stabile, più che in un equilibrio instabile. Ci volevano tutti e 10 gli anni: ogni storia ha il suo tempo, le sue radici. Un romanzo non è un saggio, non è un reportage; magari si serve dell’uno e dell’altro, per poi discostarsene radicalmente. Alcuni romanzi possono coincidere con un cammino quasi mistico: «Per raggiungere ciò che non sai, devi passare per dove non sai», scrive Juan de la Cruz.
Poi ho impiegato altri 3 anni per pubblicarlo (alternando l’euforia dei premi letterari allo sconforto dei dinieghi editoriali). Ma alla fine ho mantenuto la promessa. Il romanzo è uscito a febbraio di quest’anno con Neo Edizioni. S’intitola Beati gli inquieti. A volte penso che non sarei quello che sono, se non avessi ascoltato quell’imperativo interiore: scrivi, dai voce alla follia. A ripensarci, era folle l’invito della mia amica ed è stato non meno folle raccoglierlo. Benedetta follia. Benedetto ascolto della sua saggezza.