Dar vita ad una vita

Articolo

L’autore ci tiene a dire di aver cambiato di questa storia, accaduta negli anni Sessanta in Italia, solo i nomi. Anche il suo è peraltro occultato dietro uno pseudonimo, John Corago. Dar vita a una vita (pubblicato da Jaca Book) narra due anni della vita di Paolo, un ragazzino ospite di un istituto di ciechi a Roma in quanto da piccolo, a causa di una meningite acuta, ha perso in un sol colpo l’uso della vista, dell’udito e della parola. È un “fagottino” – così viene definito il primo giorno in cui arriva nella capitale; lascerà l’istituto avendo recuperato parte della parola e dell’udito e con una spiccata capacità di relazionarsi con il mondo esterno. In realtà però la storia personale di Paolo, con i suoi tormenti iniziali e gli incredibili progressi, rimane sullo sfondo del romanzo: l’autore invece punta la luce del riflettore tutta sui personaggi che gli ruotano intorno. Sono loro le vite a cui Paolo darà vita. In primo piano tre figure: Rosa e Adele, assistenti personali del ragazzino, e padre Juan, un francescano messicano in piena crisi vocazionale. La loro vita, dopo l’incontro con Paolo, non sarà più la stessa. Di lui, non sappiamo molto: arriva da un passato oscuro e se ne andrà dopo due anni verso un futuro senz’altro più luminoso ma del quale l’autore sembra non interessarsi. Questa non è una “biografia” ma la descrizione degli effetti che l’incontro, se vero e profondo, tra ogni essere umano può generare. Il piccolo Paolo viene infatti a far rivivere esistenze che erano perdute, inaridite. Come quella del giovane e incerto frate Juan: “Era strano che Paolo, pur non parlando, era in grado di dirgli sempre nuove cose e suscitargli sempre nuove impressioni” Paolo invece nel suo forzato tacere gli parlava, lo provocava, lo offende- va quasi nella sua normalità” gli si metteva davanti agli occhi: comunicava e parlava senza parole”. Di fronte a Paolo con i suoi sensi così malridotti viene da pensare a san Tommaso e alla Scolastica con il loro “non c’è nulla nell’intelletto che non sia stato prima nel senso”; eppure questo “fagottino” attraversa la vita degli altri uomini interrogandoli, facendo tremare le loro facili certezze, sconvolgendo i loro schemi mentali. Paolo è senz’altro figura di Cristo: non a caso la scena più toccante è quella del ragazzino che, sfuggito alle cure delle sue infermiere, va a finire nella cappella dell’istituto e, con l’aiuto del solo tatto, incontra, “tocca”, rimanendo toccato, un Cristo crocifisso. È evidente l’orizzonte religioso in cui si muove tutta la vicenda. Sotto certi aspetti può essere vista come versione romanzata di un manuale di antropologia filosofica (con al centro tutta la riflessione sui sensi e sulla relazione) o di un trattato sulle virtù, in particolare quelle teologali: fede, speranza e carità. Ma, con acuta originalità, l’autore (che, lo si intuisce facilmente, non è un romanziere di professione, ma questo dona solo maggiore freschezza e candore al testo) inverte l’ordine e preferisce cominciare dalla carità. All’inizio tutte le persone coinvolte da Paolo sono unite dall’intento umanitario, caritatevole. Ma questo può esaurirsi se non si è dotati di una speranza robusta, come quella di Rosa: “”ora la speranza per lei era divenuta quasi un abito che era cresciuto con lei adattandosi alle sue fattezze “. Ma anche la speranza potrebbe spegnersi se non ci fosse la fede, virtù che si rinsalda con la carità, con l’Amore: è il cammino, doloroso e incerto, che farà Adele, ragazza sofferente anche lei ma forse quella che più di tutti gli altri ha ricevuto (dando sé stessa) dall’incontro con Paolo. Romanzo interrogativo, provocatorio, anche per il lettore più scaltro e “navigato”. Di questi tempi è un dono di non poca importanza.

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