Danzando, imparano a condividere
Una scuola di danza e un'associazione culturale per «prendere in mano la propria vita e farne una piccola opera d'arte».
«Quando ci siamo conosciuti, sembrava fossimo separati, poi questa differenza non si è più vista», mi racconta un ragazzo del Camerun. «Qui – continua un’amica che parla francese – non solo si capisce il corpo umano come mezzo di espressione della bellezza e dell’armonia della persona, ma si impara soprattutto a stare con gli altri, a valorizzare altri modi di intendere la vita e anche la danza stessa».
Sono impressioni che i ragazzi mi lasciano prima di entrare in sala prove. Sono alcuni tra i 32 partecipanti al quarto festival e secondo campus internazionale “Armonia tra i popoli”, a Montecatini Terme, sulle colline ad ovest di Firenze.
«Scopo del festival – mi racconta la coreografa Antonella Lombardo, “anima” del progetto – è di promuovere la formazione di conoscenze e atteggiamenti per creare un clima fecondo di relazioni finalizzate al dialogo e alla collaborazione interculturale. Il campus scuola, invece, è rivolto a ragazzi europei e no, in particolare provenienti da aree di conflitto o svantaggiate come Africa e MedioOriente, avviati al professionismo della danza, per fare esprimere sullo stesso palcoscenico diverse esperienze artistiche, avvalorando la tesi che proprio queste ultime possano contribuire a individuare elementi condivisibili di fraternità».
Dov’è la radice del progetto?
«Tutto parte dal concetto che l’arte può essere strumento trasversale di unità tra i popoli; e questo, a partire dal territorio in cui viviamo, dove hanno sede sia l’Associazione culturale Dance Lab che il Laboratorio accademico danza. Insieme a tanti altri che, come me, condividono l’ideale della fraternità universale, mi sono chiesta cosa avrei potuto fare per rendere migliore il posto dove vivo. Infatti in questa zona è molto diffusa la piaga della prostituzione. Dal momento che il corpo veniva così svalutato, sfruttato, è nata l’idea di mostrare come invece esso sia innanzitutto bellezza e armonia. Abbiamo così messo in campo la nostra professionalità, il nostro talento, per farne un servizio alla comunità, ma aperti alle esigenze della mondialità dove oramai siamo immersi».
Quindi il festival nasce dall’esperienza della scuola…
«Proprio così. Non ci dimentichiamo che siamo una scuola di danza, e ciò che proponiamo con il festival non è solo un ciclo di lezioni di alto perfezionamento offerte da insegnanti a livello internazionale, ma un’esperienza dove sia gli studenti e i volontari che collaborano, sia gli spettatori, si sentano attori di un principio di cambiamento.
«Sotto l’insegna dell’arte si possono condividere in modo naturale esperienze che altrimenti sembrano impossibili. Pensiamo ai ragazzi palestinesi, che soffrono per non poter incontrare i loro coetanei ebrei che, a pochi chilometri di distanza, hanno gli stessi problemi, le stesse emozioni, le stesse esigenze. Per non parlare di chi arriva dall’Africa: i ragazzi di quei Paesi non avevano mai sentito parlare prima di questione mediorientale ecc., perché nelle loro terre il problema fondamentale è la fame.
«Quest’anno hanno partecipato dal Camerun, dalla Francia, dalla Spagna, dall’Italia, mentre dal MedioOriente sono arrivati israeliani e palestinesi. La cosa più commovente è il rapporto costruito proprio tra questi ultimi due gruppi. Si sono riscoperti fratelli, diversi ma uniti per lo stesso scopo. E la danza aiuta in modo impensato questo dialogo, che poi continua anche quando i ragazzi tornano a casa».
Che effetto ha sulle vostre città questa esperienza di mondialità?
«Il nostro progetto, partito, come dicevo prima, proprio per rispondere a un’esigenza della città, vuole creare nella comunità civile, e in particolare in quella scolastica, una nuova sensibilità sui temi della pace e del ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Il rapporto con le scuole è essenziale e la serata finale del festival ha dimostrato la sensibilità della nostra gente a queste tematiche.
«Quest’anno il tema era “La speranza sulla paura”: tutti siamo tornati alla quotidianità con la profonda consapevolezza che la speranza sperimentata in quei giorni non era qualcosa di astratto ma di vivo, reale, anche per la nostra città.
«Vorrei sottolineare che oramai, per questi appuntamenti, c’è una collaborazione anche tra vari comuni: oltre a Montecatini, Monsummano Terme, gli undici comuni della Val di Nievole, la diocesi di Pescia, la provincia di Pistoia e la regione Toscana. E altri se ne stanno aggiungendo ancora».
Particolare quest’anno è stata la presenza di padre Ibrahim Faltas, già parroco di Betlemme…
«Padre Ibrahim è conosciuto perché durante l’assedio del 2002 si fece imprigionare al posto di molte persone nella basilica di Betlemme e evitò con la sua mediazione un bagno di sangue. Ci ha scritto qualche tempo fa, raccontandoci come l’esperienza del campus e del festival sia importante per i ragazzi, “per la loro crescita e per la visione di un futuro, nella speranza che la pace è possibile per tutti”.
«Ci ha pure invitato sul posto a conoscere più da vicino quanto loro vivono per cominciare, chissà, un reciproco scambio e aiuto tra Montecatini e gli altri comuni, e Gerusalemme».
Da artista e da coreografa, cosa vuol dire, per te, seguire questi ragazzi, in un percorso che richiede sacrificio?
«Vuol dire fare bene il mio mestiere, con onestà, e cercando di dare il vero senso dell’arte all’allievo. Non importa se arriveranno ad essere artisti di successo; la cosa importante è che attraverso l’arte possano prendere in mano la propria vita e farne una piccola opera d’arte».